Michele Gazich è autore che esplora la complessità e in ogni sua composizione questo aspetto si manifesta costante e indelebile. Definire quale complessità non è semplice né scontato, e dire “la vita” sarebbe non dire nulla, in modo consono ad una buona recensione per un testo insieme così semplice e così sfuggente per note di piano e coro. La scoperta della modernità è del resto la profondità dell’epidermide: non ha senso cercare dentro, la vita si svolge in superficie.
Si potrebbe ritenere d’aver detto tutto e di aver celebrato il rito, con il privilegio d’aver assistito ad un atto poetico del quale ci facciamo volentieri spettatori e a tanto invitiamo.
Ma Gazich ci dice in apertura che “lo specchio è andato in pezzi”, che “la vita può cambiare”: e noi ci ritroviamo imbavagliati in un presente pieno di equivoci, dove “dalla bocca ti rubano l’anima”, in una deriva inspiegabile “portati da un fiume qualunque” e sempre “in fuga dalla patria presunta”.
Le marcature musicali e testuali di originale composizione trovano eco di corrispondenza con certe creazioni al piano di Paolo Conte e con l’ “Endless river” ultimo epilogo del fluido rosa. Il resto va all’ascoltatore, tra sogno, realtà e speranze. Perché la musica è sempre speranza e gioia inusitata, anche quando percorre sentieri in penombra.