Su Antigone

Antigone, Teatro Antico di Catania, 2023.
Regia di Cinzia Maccagnano. Produzione DIDE / Michele Di Dio management.

Antigone, cioè il contrasto tra legge e giustizia. Questo il contenuto forte della tragedia di Sofocle, che costituisce un anello della grande storia allegorica della stirpe degli Europei: il mito racconta che quando Europa fu rapita da Zeus, suo fratello Cadmo ricevette nel Tempio di Delfi l’oracolo del dio Apollo, che gli impartì l’ordine di seguire le orme di una giovenca e di fondare una città: Tebe.

In questo modo riviviamo le nostre medesime radici: perché i fondatori delle città europee, e tra queste le italiche città con radici greche, tra cui le più antiche sono Naxos in Sicilia e Cuma in Campania, ricevevano l’incarico di Archegeta dal Tempio di Delfi. Ricostruiamo così le nostre origini, con un flusso d’intuizione che ci riconnette a Teocles, fondatore di Naxos, e ad Evarco, suo luogotenente, fondatore di Katane.

Amenanos Festival riporta la tragedia greca sulle pietre antiche del teatro di Catania: è una grande occasione per riflettere su fatti che non appaiono ordinariamente tra i saperi condivisi. Ciò fa del palinsesto del Festival non tanto e non soltanto momenti di intrattenimento ma si traduce in spunti per l’approfondimento culturale, per la riflessione personale con obiettivi che hanno valore didattico per le Scuole, l’Accademia, l’Università, e si estendono a più larghi orizzonti di consapevole cittadinanza e di cultura europea.

Lo spettacolo recensito ieri – Il ratto di Proserpina – ci ha condotto a dar cenno al Tempio di Eleusi, dedicato alla Luna, realizzazione di quelle proprietà e qualità umane che determinano l’apprendimento di chi si dispone a ricevere la luce – condizione facile solo in apparenza – e a restituirla.

Il riferimento al Tempio di Delfi significa proseguire in profondità e tentare la coscienza del Sole. Sull’architrave che surmonta le colonne all’ingresso, era scritto Conosci te stesso – γνώθι σαυτόν – ed il compito dell’adepto, che doveva aver già conosciuto i Misteri della Luna, sarebbe stato adesso identificarsi con il Sole, essere il Sole, sì da poter assumere un ruolo di guida per gli altri.

Così Cadmo fondò Tebe, così Evarco fondò Katane: per la potenza di un’idea e la sua attribuzione a origini divine, trasmesse da un oracolo. Non tutto però è luce, e la potenza dell’oracolo dev’essere sempre onorata e rispettata, perché contiene tutte le insidie e le oscure paure che dimorano nel nostro inconscio.

Da Cadmo venne Polidoro, e da Polidoro Làbdaco che ebbe la stoltezza di mettersi contro Atene, di contestare il culto di Dioniso istituito da Teseo, già vincitore del Minotauro. C’è della politica in questo. Làbdaco che fu padre di Laio, quel Laio che fu padre di Edipo, il più noto paradigma dell’inconscio, ipòstasi umana della componente distruttiva che lega i padri ai figli, come tra gli dèi è il legame tra Urano e Crono. E cosa dire delle donne?

Questa Antigone nella versione di Cinzia Maccagnano parte da vaghe impronte sulla sabbia. Il gesto magico di Nyx (Stefania Bruno) che, con un artificio, da una lavagna luminosa si proietta sul fondale della scena, fa apparire per creazione progressiva l’immagine di Eteocle e Polinice nell’atto di uccidersi reciprocamente nell’assurda contesa fratricida.

Impronte sulla sabbia: non siamo che questo, alla fine. E allora perché tanto accanimento? Ricominciamo dal Destino, questo comporsi di un disegno sulla sabbia, che rapido svanisce. Rivediamolo nei presupposti che conducono ad Antigone. Edipo ha ucciso suo padre Laio, ma lui, abbandonato nella prima infanzia, non sa di essere suo figlio, né che la donna che si appresta a sposare, la regina Giocasta, è sua madre. Da lei verranno Eteocle e Polinice, i due fratelli; Antigone e Ismene, le due sorelle.

Il ciclo drammatico di Sofocle è inesorabile come il destino che racconta: dopo il tramonto di Edipo, i Sette contro Tebe (andato in scena per Amenanos Festival nell’edizione 2022) racconta la contesa per il trono tra i pretendenti Eteocle e Polinice.

La tragedia di Antigone comincia all’indomani della morte dei due fratelli, e alla presa del potere da parte di Creonte, che dispone che il corpo di Polinice debba rimanere insepolto. Polinice aveva radunato tribù nemiche per espugnare Tebe e farla sua: da qui il giudizio di Creonte.

Antigone (Alessandra Salamida) non può accettare che il corpo di suo fratello debba rimanere insepolto: trasgredisce quindi il comando di Creonte. Una Guardia (Alessandro Romano), minacciata da Creonte di terribili punizioni, si trasforma in delatore e consegna la giovane al re. Nel formidabile dialogo, Antigone scolpisce le parole: “Io esisto per amare e non per odiare”.

Sarebbe semplice ed edulcorante vedere la dolcezza adolescente di Antigone, che presagisce la natura materna del femminile, contrapposta all’asprezza del maschile di Creonte che si preoccupa non della giustizia ma soltanto della certezza del potere. E questo contenuto vacilla per stile poetico e per necessità pratica (la sostituzione dell’attore in cartellone): Creonte è qui interpretato da Cinzia Maccagnano che, con pause sapienti ed appropriata impressione di timbri, mette in scena un Re di Tebe che dimostra come la certezza del maschile sia tutta esteriore. Creonte dice di Antigone “Una volontà troppo dura è la prima a cedere”: ma questa frase è rivolta ad uno specchio, e presto arriverà il momento del dubbio.

Un punto che non viene mai messo in sufficiente evidenza nella ricostruzione del mito è che Creonte era stato re di Tebe già prima di Edipo, e che era stato privato del titolo a causa del flagello della Sfinge che uccideva i passanti dopo averli sottoposti ad un enigma cui nessuno sapeva rispondere. Creonte allora, promise il regno e la mano della sorella Giocasta a chi avrebbe risolto l’enigma: così cominciò il regno di Edipo.

Non dare sepoltura al corpo di un morto e seppellire viva una giovane donna: questa la decisione dura e inappellabile di Creonte. A nulla vale il confronto con il figlio Emone (Valerio Santi), che di Antigone è innamorato, e di cui produce tutte le ragioni, se non a mettere in conflitto il padre e il figlio. Dopo il consulto dell’indovino Tiresia (Rita Abela) tutto cambia: la scena si tinge di rosso, tornano le tracce del destino scritto sulla sabbia, Creonte ha cambiato idea, ma il destino ormai è troppo avanti, la profezia non può che trovare compimento.

Il finale è tragedia. Guardando dentro, all’interno del prisma, sembra che l’intendimento sia stato un fabbricare la chiave di accesso a questa porta, cesellandola per necessità e per aderenza: per aderenza, perché la messa in scena, giocata sul bianco dei costumi e sul grigio dei fondali, riceva dal racconto di sabbia la sua luce interna, e dalle proiezioni prismatiche quella esteriore. Per necessità, perché la sostituzione di un attore ha comportato un ribaltamento ulteriore nella figura di Creonte.

Un Creonte tanto forte quanto debole, interpretato da una donna, e un’Antigone tanto forte da accettare un destino terribile e considerarlo glorioso, ma senza possibilità di influire per cambiarlo: tutto questo genera una riflessione non soltanto sul tema dominante – la non coincidenza tra giustizia e legge – ma anche un più acuto e acuminato sguardo sul potere.

Creonte afferma: “Non sarà una femmina a comandare. Antigone e Ismene sono due pazze. Ben altre donne ci sono per generare”. Lo stereotipo del potere maschile in realtà non riesce a nascondere la zoologia che sta nella logica del branco dei leoni: il re è chi sposa la femmina dominante, e la femmina dominante è l’oscura Giocasta. L’occultamento è manifesto nel tentativo di chiudersi, di non accogliere nessuna ragione. Creonte dice ancora: “Colui che guida la città bisogna ascoltare, che dica il giusto o no”.

“Chi regge il potere non tollera che il potere sia trasgredito”: questo rivela Tiresia e, alla fine, in un parallelo con la contemporaneità, in un momento in cui al governo e all’opposizione i leaders sono due donne, si può constatare come il punto decisivo non sia l’incarnazione femminile o maschile, ma la scelta. Del resto, il tema di riflessione del rapporto tra maschile e femminile è nell’aria, s’impone. A Siracusa sta per andare in scena (insieme al Prometeo incatenato, peraltro interpretato dallo stesso attore – Alessandro Albertin – che ne rivestì il ruolo nell’edizione 2019 dell’Amenanos Festival, vedi recensione) un altro archetipo del femminile, Medea. Come sempre, il teatro più antico è per sempre attuale, più di sempre futuro.

Tiresia, che Dante dice “di maschio femmina divenne, cangiandosi le membra tutte quante”, è l’emblema di questo mutamento, l’annuncio, il presagio. Oggi che il potere biologico è affrancato dalla condizione della donna come forza generatrice, lo schema assume significati che ricongiungono maschile e femminile in una posizione nuova che confluisce nell’androginia della Sfinge. Ma non vale, non cambia l’esito: l’ingiustizia resta insita, consustanziale al potere. Ed il potere originario è sempre forza generativa, potere biologico. Ogni tentativo di razionalizzarlo è vano, come vano è risolvere l’enigma che i contemporanei hanno ridotto a indovinello.

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