Prometheus riporta il fuoco al Teatro Antico di Catania

Non ci poteva essere dramma più potente del Prometeo di Eschilo per far sentire chiaro e percepibile lo spirito di ignea magia del Teatro Antico di Catania. Prometeo è immagine vivente del Teatro tutto, nel suo voler dar voce al racconto degli Dèi e, tra questi, all’unico Dio capace di donare agli effimeri mortali qualcosa per permettere loro, cioè noi, di poter comprendere la natura spirituale delle cose. Ma proprio per questo Prometeo viene sottoposto a tortura eterna, incatenato. In questo modo, nei residui dello scontro titanico, qui Prometeo può evocare le sorti sue e dei suoi alleati: suo fratello Atlante, condannato a sorreggere le colonne su cui poggiano l’Africa e l’Europa, e Tifeo, che venne schiacciato sotto l’Etna.

Prometheus
(Alessandro Albertin nel ruolo di Prometeo per la regia di Daniele Salvo
Teatro Antico di Catania, 4, 5 e 6 Maggio 2019 – foto Maurizio Cannata)

Tutto diviene simbolico, se si pensa che il Teatro Antico di Catania è stato per oltre undici secoli sepolto sotto una coltre di case e palazzi, fino al punto – incredibile a dirsi ma non per questo meno vero – da risultare invisibile agli occhi. Con precedenti articoli del nostro Elzeviro abbiamo messo davanti agli occhi le fonti storiche e fotografiche che documentano come, ancora nel 1930 e fino ai grandi lavori di recupero e sbancamento iniziati nel 1980 e ripresi in diverse fasi, ultima quella del 2014, questa condizione che potremmo definire “del teatro incatenato”, persisteva.

Non c’è tragedia più solenne che quella di Prometeo: in quale scritto è mai stata tracciata una così formidabile apologia del desiderio di conoscere, indisponibile a piegarsi foss’anche al cospetto di un tribunale di dèi? Chi mai ha osato, con tanta fermezza, mettere in discussione il potere? Chi ha saputo mettere in dubbio la legittimità del regno di Dio medesimo?

Non le sacre scritture, né il pensiero religioso, né i pretesi filosofi che praticano l’abitudine cortigiana dell’ossequio del potere, ligi alla legge e indifferenti alla giustizia. Dovremo attendere Giordano Bruno per trovare un uomo che sappia assumere una simile potenza e sciagura su di sé. O forse lo stesso Gesù Cristo, come scrive Daniele Salvo nelle note di regia: qualcuno che non esiti a farsi “nemico degli dèi, amico degli uomini, portatore di luce”.

Non va trascurato il punto decisivo che segna la potenza di questa tragedia: il suo trattare non della storia degli uomini, ma degli dei. In questo, Eschilo ci rivela qualcosa di ciò che dovette essere il rito prima della tragedia, e che oggi l’antropologia ha ormai ricostruito, sebbene resti materia del non-rappresentabile e del non-dicibile.

Prometeo è un dio, forse uno degli arcangeli. Per esplorare il fondo di questa possibilità, senza compiere passi nel baratro delle teologie religiose, potremo tornare a uno dei grandi spiriti che hanno permesso di riportare i drammi antichi nei teatri di pietra di Sicilia: quell’Ettore Romagnoli che riattivò le rappresentazioni classiche a Siracusa, ricordando il suo affermare – in uno scritto a introduzione della Teogonia di Esiodo – che la concezione del cosmo e della terra dei Greci non è altra cosa da quella descritta dalle fonti più antiche, asiatiche e mesopotamiche, di cui si manifesta piuttosto evidente continuazione.

A ciascuno trarre le conseguenze di una simile osservazione, a patto di non cadere nel pensiero dualistico di un dio contrapposto a un altro: si tratta piuttosto dei moti dell’anima, in cui tutto coesiste, dove Prometeo è archetipo della fierezza, dell’indisponibilità a mediare sulle sue irrevocabili ragioni, di fronte a chi è meno grande e meno nobile di lui, per quanto oggi possa esercitare il potere.

Nell’interpretazione di Alessandro Albertin, i toni profondi della sua voce, lo scuotere le catene e il dibattersi dentro una gabbia che richiama il conodell’Etna, conferiscono ai potenti monologhi la forza che è loro propria.

Ecco, il tema non è il concetto puro di Dio, ma quel modo di utilizzare la divinità che troppe volte in troppi secoli e ancora oggi troviamo al servizio del potere.

Emblematici di questa analisi i personaggi interpretati da Simone Ciampi, in bilico tra Efesto, che si rammarica di dover svolgere un compito, quello di forgiare le catene, che non avrebbe voluto e, d’altra parte, Mercurio, che invece ottiene un piacere sadico dall’esercizio di un potere non suo. O il tentativo di mediazione politica di Oceano (Martino Duane), che spera di far mitigare la pena. La più simile a Prometeo resta lei, Io, la giumenta impazzita che corre senza tregua, magnificamente interpretata da Melania Giglio, che fa impazzire ogni sillaba del suo eloquio: è lei perfetto opposto e complemento della fissità del gigante incatenato; e come lui non può esser ricondotta alla ragione della gente comune. Sulla scena, come onde le Oceanine (Marcella Favilla, Francesca Mària, Giulia Galiani, Marta Nuti, Giulia Diomede, Giuditta Pasquinelli, Ester Pantano) seguono le suggestioni dei personaggi che appaiono innanzi a Prometeo, e commentano partecipi interpretando perfettamente l’opinione comune, la paura di sbagliare ingenerando l’avversione dei potenti. Non bisogna dimenticare infatti che, all’apertura e alla chiusura del racconto, sempre incombe Ananke, il Destino (Salvo Lupo).

Tornando alle note di regia, il punto di osservazione, solenne, apicale, non nasconde la condizione profonda: il mondo degli dèi è in declino, e l’umanità si manifesta degradata, compromessa. L’incapacità di conservare memoria delle cose del passato e coscienza della natura ultima, spirituale della vita, resta punto cruciale di questo racconto simbolico.

Udita da qui, questa esortazione è perfetta: perché l’urlo di Prometeo ha l’effetto di rilanciare il Teatro Antico di Catania come bene comune, come luogo simbolico da cui si può immaginare la progressiva riappropriazione di aree della città che per troppo tempo sono state abbandonate al loro Ananke, al loro destino. Questo luogo, riconquistato non in un giorno ma in un processo di oltre mille anni, con gli ultimi quaranta che hanno riportato il bene alla sua visibilità e all’apertura al pubblico: è il cuore simbolico della città e il suo rifiorire, se assecondato e orientato, può generare con un sistema di contagio che, se diretto e sostenuto, può estendersi, ramificare, gemmare.

Nel tentare di immaginare il modo di assecondare, orientare, dirigere e sostenere, non si tratta tanto di insistere, more veteres, sulla contrapposizione tra pubblico e privato: i beni comuni sono un tertium genus, in cui non è importante il soggetto giuridico proprietario, quanto la funzione cui il bene è adibito. Prometheus, al di là dei meriti artistici, è stata un’operazione che ha saputo interpretare la difficile cooperazione tra pubblico e privato (Michele Di Dio / Associazione Dide), potenzialmente aprendo un percorso di grande respiro che riguarda, per utilizzare l’efficace definizione di un autorevole teorico dei beni comuni, Ugo Mattei, non tanto la contrapposizione tra quel che è e quel che dovrebbe essere, quanto l’orientamento verso quello che può diventare o, meglio ancora, tornare ad essere.

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