Michele Gazich, poeta, violinista, compositore, musicista giramondo, ha seguito il concerto di Bob Dylan a Parigi, 12 e 13 ottobre 2022, ed è stato lì entrambe le sere. Il suo reportage è fantastico. Ne riportiamo alcuni brani. (In verità quasi tutto: non si riesce a togliere, è un plenum di significati. Per far felice anche il peggiore dei Baudelaire, gli rubiamo anche la foto, e persino una poesia/canzone, La Maga e lo Straniero).
«Ho assistito a decine di suoi concerti nel corso della mia vita, ma questo è stato diverso da ogni altro. Dylan, a 81 anni (!), ha costruito il concerto attorno al suo ultimo album (“Rough and Rowdy Ways”), che viene riproposto integralmente (a parte il poemetto in musica “Murder Most Foul”). E non è che non avesse scritto un paio di altre cosette interessanti nei sessant’anni precedenti… La mossa è audace per un uomo vecchio; audacissima per un vecchio artista: quasi tutti i grandi songwriter, nel congedarsi dal loro pubblico, hanno proposto un concerto antologico con le canzoni più note e famose. Così ha fatto, per citarne uno, anche l’immenso Leonard Cohen nei suoi ultimi splendidi tour. Dylan no. Ancora una volta obbliga a conoscere il nuovo e sfida sé stesso e il suo pubblico. Come a Newport nel 1965, come a San Francisco nel 1979 e tante altre volte. Che insegnamento! Che lezione!»
«E il concerto è semplicemente meraviglioso. Come usavano fare i poeti della Beat Generation (non a caso Ginsberg, Kerouac e Corso sono citati esplicitamente nella canzone “Key West”), Dylan recita, canta, lascia cadere le sue parole su tenui sfondi musicali, tessuti con raffinata economia di mezzi dalla sua band. Dylan è fragile (trascorre quasi tutto il concerto seduto e nascosto dietro un pianoforte verticale), ma canta con voce sicura “Io non sono affatto come la mia apparenza spettrale suggerirebbe” (I am nothing like my ghostly appearance would suggest).»
«Le sue parole sembrano infatti scolpirsi nella roccia e la sua voce è scura, decisa, affascinante, anch’essa diversa da tutte le sue voci di prima. Tra le pochissime canzoni recuperate dal passato a completare la scaletta del concerto, certamente spiccano “Gotta Serve Somebody” e “Every Grain of Sand”, che, rispettivamente, inauguravano e chiudevano la cosiddetta “trilogia religiosa”, pubblicata tra il 1979 e il 1981. E sono eseguite in maniera ancora una volta splendida. Veemente la prima con il suo monito chiaro, che non lascia spazio a dubbi, perché nella vita bisogna scegliere tra bene e male: “Può essere il diavolo o può essere il Signore, ma devi servire qualcuno” (It may be the devil or it may be the Lord, but you’re gonna have to serve somebody). Dolcissima la seconda in una pura e blakeiana contemplazione del creato, che s’illumina e ci illumina in ogni suo minimo dettaglio e fibra “in ogni foglia che trema, in ogni grano di sabbia” (In every leaf that tremble, in every grain of sand). »
«I musicisti della band e Dylan sono disposti in cerchio e il centro del palco è vuoto: dal 2003 Dylan fa quasi sempre così e la sua voce, anche visivamente, diventa strumento tra gli strumenti, parte di un suono complessivo. Questa volta quel centro del palco vuoto (con un’asta e un microfono lasciati lì e non usati) mi è sembrato più inquietante del solito: come se Dylan ci volesse invitare ad immaginare e ad abituarci ad una sua futura assenza. La riflessione sulla morte, in effetti, pervade tutte le canzoni. “Ho vissuto da tempo oltre i limiti della mia vita” (I’ve already outlived my life by far); e quel Rubicone che dichiara di avere attraversato sembra più un fiume che divide i vivi e i morti che quello di Giulio Cesare: “Ho lasciato ogni speranza e ho passato il Rubicone” (I abandoned all hope and I crossed the Rubicon). Un Dylan sempre più esplicitamente dantesco, comunica a noi, schiacciati dalla nostra noiosa vita sulla terra, il resoconto di una sorta di viaggio ultraterreno! A questo miracolo ho assistito a Parigi; da questo miracolo è stata colmata la mia anima e, con rinnovata motivazione, torno in trincea a scrivere, a vivere, a cicatrizzare le ferite dell’odio, ad amare, amare, amare ancora anche se tutto intorno muore.»
«PS: La mia foto è una sorta di decorazione murale accanto al Grand Rex Theatre. Ho rispettato il divieto di fare fotografie. I telefoni venivano chiusi in un apposito contenitore che veniva magnetizzato all’entrata e smagnetizzato all’uscita. Mi spiace per gli amici fotografi, naturalmente, ma seguire un concerto senza il fastidiosissimo baluginare dei telefonini di chi non sa più né guardare né ascoltare è stata una grande gioia!»
