Di Giovanni Canzoneri Fondazione M s’è già occupata, trattando dei suoi libri Chiddu chi sentu e La rivolta dei santi. Si tratta di piccoli libri di poesia che, come sempre accade nella poesia, contengono gemme. Particolarmente preziose poi, quelle di chi parla del lavoro, della volontà di riscatto sociale, della tradizione contadina e operaria, della dignità di tutte le persone. Poeta operaio e cuntastorie si definisce il Canzoneri, che contiene già nel suo nome una promessa. In quest’ultima raccolta, il nostro cuntastorie si chiede: Perché scrivo?



La domanda non è affatto banale, perché contiene in sintesi tutta la modernità, accettando o no il confezionamento postmoderno dei quindici minuti di notorietà di Warhol. Nel caso di Canzoneri, questa non è la causa. Né la clausola warholiana può dirsi accettata. In breve, non c’è in Canzoneri una volontà di rappresentarsi poeta, ma c’è piuttosto una necessità espressiva, un’irrudicibile pulsazione spirituale che fatalmente si contamina con la materialità della realtà.
Questa condizione non ha bisogno di simulacri. I riferimenti impliciti a Kandinsky o a Marx non servono a nient’altro che a creare uno statuto borghese della letteratura, ciò che a Canzoneri, poeta libertario, istintivo, necessario, non può importare. Ecco: non gliene importa nulla. Anzi: lo statuto borghese dell’intellettuale è il nemico, è il tappo che la borghesia ha messo sui partiti dei lavoratori, sui sindacati, sui rappresentanti delle classi subalterne. Anche Berlinguer, in fondo, era un borghese, gentiluomo, sì, ma persino imparentato con i Savoia: cosa c’entra con le classi subalterne? Vogliamo esaminare il caso Sanguineti?
Ma chi se ne importa. L’idea è chiara. Accedere per tutti alla soglia del pensiero.
In attesa di quell’era, fuori da ogni rappresentazione intellettuale, Canzoneri ci dice, schietto, in dialetto: Scrivu pì sfregiu / cu lu mè dittu / pì chiddi ca vulissiru / ca stassi zittu.
Irriducibile Giovanni Canzoneri. E iu ti cantu.
Da alcune sue strofe, una canzone.