C’è sempre consenso per chi dice che lo Stato è un sistema di sprechi, che il privato è più efficiente e conviene. Ma è davvero così? Oppure tutto questo blaterare serve, more solito, a “privatizzare i profitti & statalizzare le perdite“?
Proviamo a farci un’idea, andando a vedere più da vicino. Per esempio, possiamo cominciare dalla disciplina dei servizi pubblici come pensata dal Testo Unico degli Enti Locali, così saremo vicinissimi perché, come dicono i Trattati dell’Unione Europea, i Comuni sono le istituzioni dell’accesso di primo livello del Cittadino.
Bene. Vediamo allora come operano per fornire i servizi pubblici. L’art. 113 fa un’operazione fantastica per rendere complessa una cosa semplice: ecco la moltiplicazione dei pani e dei pesci attraverso la distinzione tra proprietà, gestione, erogazione. Il servizio pubblico uno e trino. La trimurti del servizio pubblico.
La proprietà, si afferma, è incedibile, perché deve appartenere all’Ente pubblico. Poco più in là però si legge che la proprietà può essere ceduta a società di capitale “interamente pubblico”. Cosa vuol dire?
Su un manuale di diritto amministrativo leggeremo che la Pubblica Amministrazione, nello svolgere le attività connesse ai Servizi Pubblici, opera senza poteri di autorità e dunque opta per strumenti di diritto privato. Sembrerebbe dunque chiara la volontà di avvicinarsi al cittadino in posizione di parità. Però, se prendiamo un altro tipo di manuale, meno giuridico e più economico, troveremo che la trasformazione del regime proprietario da pubblico a società di capitale, altro non è che la “fase fredda” della privatizzazione, e cioè quella in cui si cambia il regime proprietario per renderlo potenzialmente acquisibile da privati. Poco importa che al momento la legge non lo consenta, perché l’obiettivo delle strategie liberiste è di medio termine, e c’è tempo per cambiare la legge ed iniziare la “fase calda“.
Sin qui abbiamo parlato soltanto della proprietà ma, come accennato, bisogna ulteriormente distinguere i momenti della gestione e della erogazione.
Per quanto riguarda la gestione, la norma prevede che questa possa essere fatta in via diretta, se non ha rilievo industriale, o tramite società di capitali scelte con evidenza pubblica: quindi, se redditizia, può essere consegnata all’economia privata, sia pure con un bando ad evidenza pubblica. Nella previsione di legge, a parte il rimando alle discipline di settore, non appaiono cautele atte a tutelare nemmeno i monopoli naturali come acqua ed energia. Lo spirito della legge rimane piuttosto indifferente al fatto che le sorgenti d’acqua siano limitate per condizione di natura ed invece appare ben preoccupato ad assicurarne lo sfruttamento a imprenditori privati, sia pure con procedura di scelta ad evidenza pubblica.
Certo, c’è sempre la possibilità di ricorrere a strumenti di democrazia diretta come il referendum: e proprio sul tema del monopolio dell’acqua c’è stata una consultazione nel 2011 che ha rallentato il processo. Avremmo voluto dire “impedito e chiuso”, ma possiamo solo dire “rallentato e complicato”. Per tornare all’analisi della modalità di gestione del Servizio Idrico Integrato, la novità più rilevante scaturita dall’abrogazione referendaria dell’art. 23 bis è la possibilità di darla in affidamento diretto ad un’Azienda speciale. Non si esce da questa logica privatistica: la sentenza n. 24/2011 della Corte Costituzionale ha chiarito in modo inequivocabile che la disciplina di riferimento è quella comunitaria. Ciò significa che, dopo l’esito referendario, dal punto di vista giuridico, i soggetti deputati all’affidamento del SII, e cioè gli ATO, hanno piena libertà di scelta in proposito.
Su questo punto occorre un’ulteriore riflessione: perché non dobbiamo sopravvalutare la classe dirigente italiana e attribuire a questa le responsabilità di qualcosa che solo pochi comprendono veramente negli effetti di medio e lungo termine. I politici italiani non hanno necessità di capire. Se non capiscono è meglio: il loro compito è enunciare slogan. Il vero ruolo è prendere direttive da altre sedi, e cioè da chi paga le loro attività, che significa in sostanza i gruppi di potere che sono in grado di determinare le direttive europee e per questa via entrare nei sistemi di regolazione interna degli stati nazionali. Non a caso, la disciplina dei Servizi Pubblici è da ascrivere alle Direttive Europee numero 23, 24 e 25 del 26 febbraio 2014.
Cercando di comprendere lo spirito di queste direttive, facciamo fatica a vedere una tutela dei cittadini, quanto piuttosto un disegno atto ad assicurare che gli appalti più significativi vadano ai grandi “squali” che possono aggredire il mercato. L’evidenza pubblica, più che garantire risparmi a vantaggio degli utenti finali, sembra infatti idonea a fare in modo che non possa sfuggire ai grandi gruppi di capitale l’opportunità di mettere sotto il loro dominio una comunità territoriale.
Con queste affermazioni non si vuole certo prendere posizione a vantaggio di gestioni familistiche o peggio: nemmeno tuttavia appare buon senso mettersi nelle mani di colonizzatori interessati ai profitti e totalmente indifferenti ai fruitori dei servizi. E’ il capitalismo finanziario, liberista in essenza, refrattario ai poteri pubblici in concreto.
Ma c’è un altro modello di servizio pubblico possibile? Guardando al passato, troveremo il glorioso sistema delle gestioni statali e delle partecipazioni statali che aveva reso l’economia italiana forte nel mondo. Un modello intermedio tra libero mercato e statalizzazione, in cui la politica economica pubblica assumeva l’espressione di mediazione tra forma capitalista e forma socialista dell’economia.
Con il crollo del muro di Berlino, il capitalismo ha distrutto ogni elemento socialista dentro il mondo occidentale.
L’Unione Europea, con la formulazione ipocrita della definizione “economia sociale di mercato”, mettendo accanto le espressioni “sociale” e “mercato”, ha utilizzato la formula per farla apparire simile a quella via intermedia che l’Italia stava percorrendo fino agli anni ’80, ma in effetti si tratta di una costruzione sin da principio falsa. L’economia sociale di mercato non è che una variante dell’ideologia liberale, che trae origine dall’ordoliberalismo concepito dalla Scuola di Friburgo di Walter Eucken.
Il liberismo è quella dottrina che è alla base della moderna economia politica, una forma-pensiero elaborata dai ricchi proprietari degli strumenti di produzione per giustificare la loro supremazia e dissimularla, facendola apparire come un servizio alla collettività.
La collettivizzazione delle imprese – soprattutto delle imprese che operano in settori vitali come l’acqua e l’energia, o in condizioni di monopolio – era l’idea alla base del grande movimento operaio anarchico della metà dell’Ottocento, che poi fu irreggimentato nella forma più ristretta e dottrinale del socialismo di Lenin e Trotzki.
Sebbene in questo modello a significato ridotto – che perdeva tanto della forza del socialismo magico originario del Sol dell’Avvenire – comunque il vento del comunismo marxista che spirava dalla Russia spaventò terribilmente i padroni delle fabbriche dell’Europa degli inizi del ‘900, che temevano di subire l’ “espropriazione proletaria” e, pur di evitarla, non esitarono a finanziare quelle infiltrazioni nel movimento sindacale e operaio, da cui ebbero origine il fascismo e il nazismo. Quanto ai russi, il loro vento fu presto arginato grazie all’imbelle stupidità del “socialismo in un solo paese” imposto dall’Occidente all’URSS di Stalin.
Il 1989, con l’abbattimento del muro di Berlino, segna il momento in cui il capitalismo trionfa sul sistema sovietico e contestualmente lo cancella, anche nei segnali più moderati, perseguendo, dapprima con i governi Thatcher e Reagan, la politica atlantica di assoluta privatizzazione e smantellamento sistematico dello stato sociale, con l’obiettivo di ridurre al minimo le funzioni dello Stato.
Ciò cui stiamo assistendo nella fase matura di queste politiche (che dietro hanno le trattazioni neo-liberiste di Von-Hayek e Friedman, per ricordare alcuni degli esponenti più piegati a questa interpretazione radicale del capitalismo), è il completo trionfo del neo-liberismo, che ha annientato la struttura delle classi sociali, costruendo un sistema in cui la società è totalmente “liquida”, cioè priva di strutture solide, ed una “upperclass” di nuova aristocrazia fondata sul capitale, totalmente lontana e distante dal resto dell’umanità, vista semplicemente come “underclass“, un sistema di alienati consumatori, frammentati e disgregati e senza nessuna effettiva opportunità di influire politicamente, in dinamica correlazione al sottosistema schiavi sostenuto dalle dinamiche dell’imperialismo che produce immigrazione, con diverse strategie commerciali per mantenerli a distanza e sempre più posti come standard di condizione inferiore e subumana.
Resistere a questo disegno che ha corollari inquietanti come il transumanesimo, l’eugenetica, l’utilizzo della povertà come condizione strutturale della dimensione subumana anche a fine di “coltivazione di organi di ricambio” ed altre cose che già accadono sotto i nostri occhi colpevolmente ignari, è argomento del XXI secolo.
Tutti hanno la condizione per comprendere questi argomenti, tuttavia la dimensione dell’inconscio è iperinflazionata dai messaggi dominanti, che generano rimozione dei contenuti importanti e concentrazione su argomenti effimeri e di nessun valore, ciò che permette di avere persone convinte di poter tranquillamente sostenere dispute intellettuali sui social e parimenti essere vittime di analfabetismo funzionale.
Dato il quadro, l’unica possibilità è liberarsi da queste strettoie attraverso la meditazione e l’accesso a contenuti non ordinari dell’esperienza del quotidiano.
Solo all’interno di queste cerchie si può cercare di ottenere consapevolezza sufficiente a concepire un modello di società che sia al riparo dall’influenza nefasta e inquinante del capitalismo monetarista.
Solo liberandolo dal materialismo marxista si può tornare a concepire il S::M::