Le canzoni di protesta e la truffa del punk

Non bisogna sottovalutare lo sforzo dell’establishment per tappare la bocca ai movimenti di coscienza che negli anni del beat/folk/blues diffondevano idee giudicate pericolose per la stabilità del potere. Le idee di filosofi indiani come Aurobindo entravano in Occidente attraverso la musica, che le portava alle giovani generazioni.

Per coprire questo fenomeno, rifiutato nel suo tempo e relegato a “giovanilismo”, le “canzoni di protesta” furono accusate dai critici di essere noiose e insopportabili, il rock progressivo considerato pretenzioso e fuori moda, mentre si creava contestualmente il fenomeno dei finti anarchici (con la stessa funzione nella musica che ha il black bloc nei cortei).

Perfetto esempio di questo modello i Sex Pistols, tra l’altro vestiti dalla stilista Vivienne Westwood, di cui da tempo si vocifera fossero creazione dell’establishment per fare propaganda e mettere sullo stesso piano il rock critico di gruppi come i Pink Floyd, che negli anni ’70 avevano osato la contaminazione sinfonica e nei primi anni ’80 si permettevano di criticare la Thatcher (“Maggie! What happened to the post-war dream?”) e riprendevano, su nuovi stili musicali, la tradizione della contestazione che viene dalle canzoni di Dylan e Baez.

A che scopo? Per affermare la nullità di quella controcultura. Anthony Burgess con “A clockwork orange” è chiarissimo su questi intendimenti di propaganda. Chi volesse, può leggere un saggio breve sul tema, dal titolo “The rising of cosmopolitan personalities“, su Academicus International Scientific Journal, dove il tema è trattato con profondità sociologica e storiografica.

Per chi non ha voglia, si goda il prodotto discografico “God save the queen” con il suo stile pseudo-anarchico, ma con l’avvertenza che è in realtà una canzone reazionaria, fatta per confondere i “drughi”, che presto sarebbero stati tolti dalle piazze, dove magari potevano farsi qualche canna e imparare qualche canzone di impegno politico suonata alla chitarra, e sprofondare nelle spelonche glamour della musica ad alto volume senza possibilità di parlare, con la cocaina in agguato.

Molto meglio, concettualmente se non musicalmente, God damn the queen e la lettura di un saggio che tratti bene l’argomento.

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