Nella contemporanea società liquida, in cui le parole non significano più nulla, dove la neolingua ribalta i significati tanto che è la sinistra a fare le scelte di destra, forse è il caso di introdurre distinzioni più profonde. Per esempio, il “fare” non è necessariamente progresso.
“Fare” può significare anche agire compulsivamente e fare errori: non è consigliabile a nessuno, meno che mai alle istituzioni. Si può “fare” e peggiorare le cose; abbiamo visto anche recentemente quanto sia pericolosa e nociva una politica del “fare”.
La Costituzione non è “vecchia e da cambiare”, piuttosto, è la nostra tradizione, va onorata e rispettata e solo per ragioni gravissime è opportuno avviare ragionamenti per eventuali modifiche, che devono essere figlie dell’epoca e non di particolari convenienze. Senza dimenticare che i padri costituenti hanno prodotto un distillato del pensiero politico italiano, tirando fuori le più nobili energie in un’epoca terribile. La banalità del nostro tempo è di certo preferibile al fuoco del dolore causato da due guerre mondiali ma, se non possiamo paragonare nel male quell’epoca all’attuale, non possiamo farlo nemmeno nel bene e nella comprensione dei valori.
Anche la parola “progresso” ha perso il fascino che aveva nell’Ottocento, la sua carica magnetica come promessa di emancipazione e di affrancamento dalle catene della necessità che avrebbe dovuto comportare. Pericolosa per il potere costituito, è stata sostituita con sinonimi come “sviluppo”, “crescita”, che però presentano il limite del “fare”: non ogni “fare” è miglioramento, e questa condizione si applica anche a “sviluppo” e “crescita” ogni qual volta si accompagnano a situazioni non sostenibili rispetto alla natura e al ciclo di rigenerazione delle risorse naturali.
Di più: nell’Ottocento l’idea del “progresso” aveva componenti mistiche, era la promessa di una “nuova era” che avrebbe portato una liberazione quasi messianica, il Sol dell’Avvenire. La sua dottrina prendeva corpo da correnti filosofiche ed esoteriche che avevano rotto con l’interpretazione egemone, che rifiutava di accettare come verità gli “errori del passato” sol perché tramandati con l’autorità della tradizione. Il pensiero ai Manifesti alchemici dovrebbe essere evidente anche a chi non sa di questa sfera e del ruolo che ebbe nella storia delle idee, al culmine di quel percorso di sedimentazione e fioritura di quelle scuole filosofiche che avrebbero condotto alla Riforma.
Anche “riforma” è parola inadeguata per il linguaggio moderno. Nata come desiderio di comprensione per la liberazione dagli errori del passato, questo termine è rimasto irretito dall’uso che ne è stato fatto per opporla a “rivoluzione”, rendendo inutilizzabili entrambi i termini. Del resto, in astronomia “rivoluzione” non è che il moto di un corpo celeste che gira intorno al proprio asse, cioè intorno a sé stesso, mentre “riforma” è divenuto lo strumento dei furbacchioni del “fare”, così che siamo pieni di riforme inutili e spesso apertamente dannose.
Non è un gioco di parole quello che s’intende fare. Piuttosto, è un piccolo studio allo stato seminale, dei meccanismi di appropriazione di certi ambiti filosofici di certe parole significative, prevalentemente con lo scopo di neutralizzarle, di sterilizzarle rispetto alla loro carica magnetica. Così “progresso”, scivolando nel marxismo, diventa analisi materialista, che cancella definitivamente dal pensiero di sinistra la carica spirituale dei primi utopisti e trascendentalisti. Il linguaggio della propaganda fascista e nazista utilizzerà nella sua fase sorgente i codici del sindacalismo rivoluzionario per mettere il collare ai movimenti dei lavoratori.
Oggi, il capitalismo si nutre del sistematico lavoro di trasformazione dei significati, perfettamente simile alle logiche del “newspeak” che descrive Orwell in 1984. Se una parola conquista un significato eversivo, ecco subito apparire un contenuto formale, spesso uno slogan pubblicitario, che la banalizza. Funziona così, non c’è scampo per nessuna parola che entri nel circuito degli slogan.
Sulla parola “laico”, che dovrebbe designare un atteggiamento distinto e distante da ogni pregiudiziale religiosa, possiamo registrare l’antichità del falso conio: perché “laico” è termine che appartiene al lessico cattolico, e designa quanti, pur credenti, non hanno preso i voti dell’ordinazione religiosa cattolica. Per nascondere questo “conflitto di interesse”, i grammatici hanno persino inventato una distinzione tra “laico” come sostantivo e “laico” come aggettivo, dando al primo il significato di “credente cattolico non appartenente allo stato ecclesiastico” e al secondo una più indistinta “autonomia di scelte nei confronti della Chiesa cattolica”. Solo chi non vorrà accorgersene non noterà l’inganno contenuto in questa diade e la logica contrapposizione interna.
Quindi, chi intende connotarsi come estraneo al principio religioso cattolico, non dovrà dirsi “laico” ma, come si diceva un tempo, “ghibellino”: ma questo termine è stato subito esecrato dalla maggioranza “guelfa”, cioè filocattolica, a partire da Dante che pone all’inferno i capi carismatici di questa corrente, da Federico II a Farinata degli Uberti, a Ezzelino da Romano tutti, non a caso, accusati di atrocità da gente atroce e crudele che ha preteso prima di colpirli e poi di giudicarli e, infine di distruggerne la memoria.
Ghibellino viene dal medio tedesco Wībelingen, derivato da Waibling, nome di un castello di Franconia sede elettiva degli Hohenstaufen. I signori di Waibling saranno opposti ai duchi di Baviera, filo-papali: da qui l’interpretazione di questo termine come di chi è oppositore del potere temporale del papato, in contrasto con altra fazione che si definiva guelfa. Troviamo questo termine anche in architettura, dove per merli ghibellini s’intendono quelli a coda di rondine, usati come segno distintivo.
Definire lo Stato “laico” significa aver accettato la supremazia culturale della Chiesa Cattolica. Forse l’aperta opposizione è eccessiva, può darsi; ma non era questa l’originaria intenzione dei ghibellini, che semplicemente si attenevano alla dottrina delle due spade, l’indipendenza tra Chiesa e Stato che ritroviamo alla base della nostra Costituzione, filtrata dalle idee di Mazzini e reinterpretate nell’idea di uno Stato Sociale. Ma oggi abbiamo dimenticato tutto, siamo post-moderni e liquidi e tutto questo non può essere compreso fino in fondo, mancano le basi.
