Facile dire “andiamo indietro”. Fondazione M propone un approfondimento, che avrebbe potuto anche intitolarsi “Perché non seguo i telegiornali (e meno ancora i talk-show)“. Cominciamo.
Se andiamo indietro – sui diritti, sul lavoro, sui livelli di reddito – non è un caso, ma è frutto di una scelta. Questa scelta, su cui il popolo non ha nessun potere, è la scelta di chi comanda le leve del capitalismo finanziario, ed ha più di un nome, può essere definita in molti modi. Probabilmente, la definizione che meglio la riassume è “Neo-liberismo“.
Difficile capire il “neo” se non risaliamo al “Liberismo”, di cui diremo l’essenziale: liberismo è la legge del più forte in economia. Semplicemente, se ho i soldi, ti compro e tu non puoi fare niente. Se ho i soldi, ti butto fuori di casa, e tu non puoi fare niente. Il liberismo non tollera l’intervento dello Stato per fini di giustizia sociale, non tollera la progressività delle imposte secondo il principio della capacità contributiva, non tollera nessun ostacolo alla legge del potere crudo del danaro.
I più convinti sostenitori, ovviamente, sono i più ricchi, che non tollerano limiti al loro potere economico. Sostengono del resto che il sistema sia perfetto, perché il mercato è un sistema che si equilibra da sé, mediante gli imperscrutabili meccanismi della mano invisibile che regola la domanda all’offerta e viceversa.
Anche a volerci credere, il 1929 resta un momento storico in cui gli esiti del sistema economico privo di controllo sono verificati: è il momento del crollo azionario di tutte le borse, della crisi più nera, del disastro finanziario. Per uscire da questo baratro, è stato necessario accettare l’intervento dello Stato in economia, il sistema keynesiano degli investimenti pubblici. Questo sistema ha garantito sviluppo e prosperità per l’intero periodo che va dal dopoguerra agli anni ’70.
Successivamente, i sostenitori dei privilegi dei ricchi sono tornati alla carica, utilizzando le teorie di Milton Friedman e Friedrich von Hayek, che aggredivano gli sprechi e le corruzioni del sistema pubblico (corruzioni spesso indotte proprio dagli interessi del capitale), per sostenere che bisogna contenere la presenza dello Stato, che deve limitarsi a garantire i confini della proprietà (cioè l’interesse patrimoniale consolidato dei possidenti).
Le teorie neo-liberiste di Friedman e Hayek hanno preso consistenza politica con i programmi politici di Reagan e Thatcher, che hanno contagiato tutto l’Occidente a partire dagli anni ’80 e a tutt’oggi. Sarebbe facile liquidare il tema con una battuta e ricondurre questa simpatica combriccola alla categoria ridicola di Superciuk, gente che ruba ai poveri per dare ai ricchi. Ma sarebbe grave e fuorviante, perché questi non rubano: espropriano lecitamente attraverso il danaro e sono in grado di modificare persino la Costituzione di uno Stato, attraverso politici compiacenti e addestrati, per ottenere i loro risultati.
La modifica dell’art. 81 della Costituzione italiana, che ha costituzionalizzato il principio del pareggio di bilancio, mentre viene fatta passare per norma di buon senso, impone per legge la rinuncia al sistema keynesiano (che era fondato invece sull’esclusiva destinazione dell’indebitamento ad investimento per infrastrutture). In questo modo, secondo la più autorevole dottrina, la modifica dell’art. 81 ha cambiato la forma di stato italiana, trasformandola da Stato sociale a Stato neo-liberale.
Il pareggio di bilancio implica del resto l’adozione di politiche di austerity, la riforma della politica salariale (cioè la riduzione delle retribuzioni), la messa in vendita degli immobili degli enti pubblici che non hanno i conti in equilibrio. Legge Fornero, Jobs Act e vaneggiamenti sulla spending review sono esempi recenti ed eloquenti.
A chi conviene tutto questo? Dovrebbe essere abbastanza chiaro: conviene a chi ha i mezzi di produzione e i capitali. Ma non pensiamo a processi spontanei. Le operazioni sono scientifiche. Si preparano convegni per sostenere le ragioni del capitale, le soluzioni da adottare. In breve, il sistema di espropriazione della proprietà pubblica e la riduzione a impotenza dei lavoratori è un programma politico. Il programma politico del neo-liberismo, che può comprare politici nazionali ed europei, a qualsiasi livello e, anzi, non ne ha nemmeno bisogno, perché sono i politici che sognano di entrare in contatto con queste potenti lobbies e, mettendosi al loro servizio, avere la garanzia di una brillante carriera individuale.
Sia chiaro: lo spreco e le inefficienze del sistema pubblico vanno combattute. Ma sia chiaro anche che il neo-liberismo non ha alcun interesse vero a combatterle. Al contrario, l’esistenza di sprechi nel sistema pubblico è la breccia attraverso cui le dotte teorizzazioni di professori di chiara fama possono sostenere la prevalenza dell’economia privata, la preferibilità della privatizzazione. Anche di settori in cui libero mercato è impossibile, perché si tratta di monopoli naturali: come nel caso dell’acqua e dell’energia.
L’Unione Europea si è prestata del tutto a questi disegni del neo-liberismo: le sue direttive sono evidente applicazione di questi principi, sebbene tradiscano l’originaria concezione dei trattati dell’Europa come economia sociale di mercato. Il mondo va avanti, il danaro corre, i tempi cambiano e tutti sono al soldo del capitale. Così la multilevel governance che doveva allineare le politiche dei Comuni a quelle delle Regioni, degli Stati Nazionali fino alla Commissione Europea in nome del principio di sussidiarietà, è diventata invece un pretesto, una finzione di partecipazione dal basso per imporre i dettami del neo-liberismo, dove la regola prende il posto della legge e il consumatore sostituisce il cittadino.
Siamo entrati nella sfera di un Governo degli Arconti (o “dei custodi”, secondo la definizione di R.A. Dahl, che è lo stesso), in cui la democrazia è irreversibilmente divenuta una tecnocrazia che ha il compito esclusivo di dare fondamento e copertura esclusiva alla libera azione degli attori economici, dove la legge è un cane addestrato a proteggere i diritti del padrone.
Secondo gli standard attuali, lo Stato deve avere attenzione a infondere fiducia nei finanziatori privati, piuttosto che garantire i diritti ai propri cittadini. Cittadini? I lavoratori vengono presi a calci dai padroni. Leggi del taglione su assunzioni e licenziamenti sono nel programma neo-liberista. La distruzione del ruolo storico del sindacato è un risultato da lungo tempo acquisito, grazie al consociativismo reso facile dalle esagerate retribuzioni delle posizioni di vertice.
Pugno di ferro in guanto di velluto: se Marx chiamava i disoccupati “esercito industriale di riserva”, oggi i neo-liberisti li chiamano “occupazione potenziale”. La frantumazione delle tipologie contrattuali (in Italia, la terribile “legge Biagi”) rende risibile ogni ipotesi di unione dei lavoratori che, piuttosto, sono messi gli uni contro gli altri. E, fronte di questi cambiamenti, sebbene annunciata, nessuna flexicurity è entrata a sostituire il sistema di protezione sociale.
Andiamo indietro. Chiunque abbia un contratto di lavoro subordinato è andato indietro nei propri diritti. E le mutazioni del diritto dei lavoratori sono andate oltre i principi costituzionali. Ma nessuno se ne accorge. Oltre i lavoratori subordinati ci sono i precari, poi c’è il lavoro nero, poi c’è l’immigrazione o, a dire il nome vero, la tratta degli schiavi.
Affinché tutto questo resti fuori dalla coscienza, ci vengono contraccambiate le posizioni con “diritti cosmetici“, che sono il segno attraverso cui la mutazione da Stato Sociale a Stato Neo-liberale si accompagna a una mutazione antropologica dei singoli cittadini. Non ci schieriamo per la difesa del modello tradizionale della famiglia né per la ricerca di un idillio in un’Arcadia patriarcale. La società cambia ed è giusto che ciò accada, ma intendiamo dire che il cambiamento giusto era quello che si sognava nel ’68: emancipazione, espansione della conoscenza.
La cultura della contestazione è stata smantellata con mano pesante: gli omicidi Kennedy e Martin Luther King sono testimonianza di quanto efferata sia stata la determinazione. Gli anni ’80 e ’90 sono stati un suicidio generazionale, dissolto nella distesa liquida del XXI secolo, che non ricorda nemmeno le Twin Towers e gli inganni dell’ “esportazione della democrazia” dietro cui si nasconde malamente il più becero imperialismo di sfruttamento.
Se non si trova la forza di reagire, i “diritti cosmetici” come i diritti dei consumatori o anche le parate LGBT saranno elemento strumentale alla trasformazione della società in enorme supermercato dove le merci in vendita siamo noi, al prezzo più basso. L’unica alternativa possibile è fare partire proprio da qui movimenti culturali di resistenza, per l’appropriazione di spazi pubblici e beni comuni e un nuovo principio di collettività. Non cedere alla trasformazione in homo oeconomicus e mantenere, al di là delle scelte soggettive e della morale comune di un tempo, la condizione di homo dignus che, alla fine, dipende da un’etica che, indipendentemente dai valori soggettivi e da considerazioni di ordine morale, risiede nella coscienza e può e deve sempre trovare una dimensione immune dal danaro.
