Tutto comincia con gli anni ’80, quando i ragazzi che suonavano la chitarra in piazza e parlavano di politica e cantavano canzoni di protesta e di emancipazione che ereditavano dagli anni ’60 e dalle radici profonde del blues, all’improvviso si trovarono respinti dentro discoteche con musica ad alto volume, molto glamour e nessuna possibilità di parlare tra di loro, ma solo di guardarsi e di attrarsi esteticamente.
Non accade per caso: è la volontà politica dei governi della Thatcher in Inghilterra e di Reagan in America. Manganellate a chi protesta. Identificazione di tutta la protesta con il punk. Sostegno e repressione del punk, con movimento ambivalente e infiltrazioni della polizia. L’illegalità della droga si abbina alla sua pervasiva diffusione.
Lentamente, e salva qualche eccezione che trova riparo in punte mistiche, anche la musica declina, diventa meno significativa, quando non del tutto spazzatura. I migliori lanciano un grido disperato che è una corsa al suicidio. Arrivano gli anni ’90.
Il disegno degli economisti è smantellare non soltanto la protesta giovanile, ma l’intero stato sociale. Si dice che “pubblico” equivale a spreco, e che “privato” è bello. Si intavola un sistema di “modernizzazione” che è di fatto un processo di completa “privatizzazione”. La teoria prevede una “fase fredda”, in cui gli Stati Europei procedono a trasformare la forma dell’Ente pubblico in società per azioni, cui segue una “fase calda” in cui i privati comprano gli Enti pubblici.
Ciò può essere ammissibile in settori accessori, ma non nel campo vitale della produzione di energia, nelle assicurazioni sul lavoro, nella chiave principale del sostegno pubblico all’economia. Ciò non ostante, in Italia ad esempio, vengono dismesse IRI, ENEL, ENI e INA.
L’Europa, che noi tutti amiamo come strumento di unificazione e pace perpetua tra i popoli, dietro i suoi nobili ideali ha messo su una tecnocrazia che non risponde a nessun Parlamento (l’organo esecutivo non è legato da rapporto di fiducia con l’organo assembleare, che è la base della democrazia), che è oggi un fiero sostenitore della tesi liberista.
Questo significa che dobbiamo smantellare l’Europa? No di certo. Significa, se mai, portare alla coscienza di chi può fare qualcosa che bisogna ripartire da quel progetto costituzionale che i referendum di Francia e Olanda hanno buttato via nel 2006 votando stupidamente no.
Dobbiamo dire no a quel no e ripartire, cominciando dal pretendere un controllo democratico del Parlamento Europeo sull’Esecutivo (Commissione e Consiglio).
