Porta Garibaldi o Porta Ferdinandea?

“Porta Ferdinandea” o “Porta Garibaldi”?

L’arco trionfale costruito nel 1768 su progetto di Stefano Ittar e Francesco Battaglia, per commemorare le nozze di Ferdinando I delle Due Sicilie e Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, va certo considerato in origine in base a questo motivo: dunque la notazione “Porta Ferdinandea” dovrebbe esser quella preferibile.

Tuttavia, non possiamo non notare che la realizzazione fu suggerita da Ignazio Paternò Castello, Principe di Biscari e dal Principe Rosso di Cerami, che impressero a suggello della loro opera le scritte “Litteris armatus et Armis decoratur” (di Biscari) e “Melior de cinere resurgo” di Rosso di Cerami.

Se questi eminenti hanno avuto parte nelle cospirazioni illuministiche contro i Borboni, tuttavia la posizione del principe di Biscari andrà chiarita: nel 1740 il B. aveva pubblicato a Catania un poema in lode di Carlo di Borbone (fonte: enciclopedia Treccani).

Ma qualcosa di avverso ai Borbone doveva pur esservi se Garibaldi, nel secolo successivo poteva scrivere (13 aprile 1863) a Gioacchino Biscari: “Caro Biscari, vi raccomando il mio amico Orrigoni. Ricevete una stretta di mano. Il vostro Giuseppe Garibaldi” (fonte: La Repubblica)

La componente antiborbonica va ricercata nell’appartenenza massonica del principe di Biscari e del principe di Cerami. Anche qui, gli interessi sono compositi e, dietro la fascinazione per le antichità classiche (le antichità e l’archeologia care ai nostri), vi erano trame politiche di ben altra consistenza. Erano soprattutto i rapporti tra il Regno delle Due Sicilie e lo Stato Pontificio a generare l’azione politica di Londra. La massoneria inglese aveva come priorità politica la cancellazione delle monarchie cattoliche e la cattolica Napoli era ormai invisa alla protestante e massonica Londra che mirava alla cancellazione del potere papale: ed i Borbone costituivano principale ostacolo a questo obiettivo, generando una tensione sotto traccia che esploderà definitivamente alla fine degli anni ’50 del XIX secolo.

L’avversione, come detto, era più antica, ed aveva le sue radici proprio nell’età dei principi di Biscari e di Cerami:  era il 1751 quando papa Benedetto XIV, al secolo Prospero Lambertini, scomunicò tutti gli appartenenti alla “Fratellanza” e ordinò lo scioglimento delle logge. Sulla base di questo, Carlo di Borbone emanò un  Editto per cancellare le Logge del Regno delle Due Sicilie. Raimondo di Sangro che ne era il Gran Maestro si presentò al Re e abiurò. Con la sua  “abiura”, vera o finta che fosse, e con la consegna degli elenchi dei “fratelli”, che lo chiamarono traditore, molti ritengono che in realtà salvò la situazione. I massoni ebbero il  “rimprovero” del Re, ma la cosa finì li  e fu la totale salvezza dei  massoni napoletani da possibili persecuzioni, che non ci furono, permettendo loro in realtà di continuare a svolgere indisturbati le proprie attività esoteriche. Dalla tradizione di Raimondo Di Sangro, del resto, dipende quella del Barone Spedalieri, che sarà tra i principali discepoli, nell’Ottocento, di Elifas Levi.

L’Istituto di Ricerca Storica delle Due Sicilie (fonte: La Voce di Napoli),  in atti del convegno “La liberazione d’Italia nell’opera della Massoneria”, Torino, settembre 1988, riporta che a Garibaldi fu segretamente versata la somma di tre milioni di franchi francesi in piastre d’oro turche, moneta molto apprezzata in tutto il Mediterraneo che, come afferma lo studioso Giulio De Vita: «È incontrovertibile che la marcia trionfale delle legioni garibaldine nel Sud venne immensamente agevolata dalla subitanea conversione di potenti dignitari borbonici alla democrazia liberale. Non è assurdo pensare che questa illuminazione sia stata catalizzata dall’oro».

Si dice che la fonte era il governo inglese (non a caso lo sbarco avvenne a Marsala, allora una sorta di feudo britannico, e sotto la protezione di due navi inglesi; e proprio su una nave inglese nel porto di Palermo fu firmata la resa dell’isola).

In questo modo si spiega la resa di Palermo e come mai l’esercito dei Mille sia riuscito a sconfiggere un esercito di centomila uomini ben armato e addestrato. E si spiega meglio l’affondamento dell’”Ercole”, il piroscafo su cui viaggiava Ippolito Nievo, che aveva  con sé la documentazione sull’impiego che nel Sud era stato fatto di quei fondi e che, in realtà, pare non avesse che le ricevute.

Che fine ha fatto allora il denaro? Bene, in un modo o nell’altro, è chiaro. Si tratta pur sempre solo di danaro.

Tornando all’idealità, ecco che la porta ferdinandea conteneva già un presagio in quelle frasi dei principi illuminati: che un giorno di lì sarebbe passato lo stormo della rivolta.

Peccato che le idee di Mazzini di emancipare il popolo dal giogo tirannico dell’aristocrazia borbonica non si siano risolte che in un passaggio doloroso ad un’altra condizione subordinata: l’annessione al regno di Savoia. Gli stessi che predarono quel carico d’oro, per saldare i loro debiti con gli inglesi.

Le buone intenzioni di Mazzini? Rimandiamo a un noto proverbio. Ma senza quella idealità, non ci sarebbe ancora un’Italia, se pur oggi questa esiste.

Davide C. Crimi

[Un dovuto ringraziamento all’arch. Giovanni Salamanca e al prof. Stefano Ricciuti per alcune sollecitazioni e indicazioni di fonte]

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       Emblema dei Rosso di Cerami

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porta Garibaldi a Catania

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porta Garibaldi a Milano (creative commons Di LucaChp – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=19143230)

4 commenti

    • Una moneta denominata “piastra d’oro turca” puramente e semplicemente non esisteva, l’economia ottomana non era certo la più solida del XIX secolo e si reggeva grazie a cospicui prestiti erogati da finanzieri inglesi e francesi, tanto che la sua moneta aveva subito numerose svalutazioni, non si riesce a comprendere – al di là della totale assenza di documentazione che Di Vita sostiene di aver trovato ma senza mai dire dove, come, di che si tratti – la ragione per la quale ipotetici finanziatori probabilmente scozzesi, dato l’esplicita indicazione di Edimburgo quale sede delle indagini di Di Vita, avrebbero deciso di rinunciare all’uso della sterlina, accettata e quotata su qualunque piazza finanziaria, o del solidissimo franco francese, per adoperare quella che sembrerebbe – a prender sul serio Di Vita – essere stata la “lira” (equivalente a cento piastre) turca, che esisteva ma circolava soltanto all’interno dei domini turchi o era usata per le transazioni commerciali appunto con l’impero ottomano, avrebbe consentito di individuare immediatamente chi avesse voluto convertirla in altre monete, e che era equivalente a 23 franchi, il che porterebbe l’ammontare totale della cifra indicata spericolatamene dalla libellistica “revisionista” ben lontano dai “molti milioni di dollari” stimati da Di Vita. Insomma il preteso finanziamento è una gigantesca panzana, del tutto screditata da anni.

  1. I puntuali argomenti di Marinelli sono condivisibili nell’impianto della logica finanziaria, pertanto un dovuto ringraziamento per questo autorevole commento. Probabilmente ha ragione di definire la “piastra d’oro turco” una panzana; sarebbe però differente fare riferimento all’oro dell’impero ottomano (quindi, lasciando perdere la moneta di conio e guardando semplicemente all’oro) e considerare gli interessi degli stati europei più mercantili. La stessa Italia, attraverso Adriano Lemmi ebbe un ruolo rilevante nelle operazioni finanziarie che portarono alla rivoluzione di Ataturk. Questo è un fatto che non può essere smentito e che, al di là delle osservazioni sulla moneta di conio, ristabilisce la necessità di rivedere il giudizio sostanziale.

  2. L’articolo di Tony Zermo “Il terremoto e Garibaldi cambiarono faccia al fortino” apparso su La Sicilia dell’ 8 settembre è gradevolissimo e interessante: gradevole per il sapido linguaggio popolare “‘a calcarara” che fa irruzione nella trattazione storica, interessante per i contenuti che fanno convergere l’attenzione sul monumento che, forse più di ogni altro tra quelli che segnano la città per la loro riconoscibilità fisica, è un vero e proprio rebus di significati.Di tutto questo si trova ampia trattazione nel numero 69 della rivista Agorà, che dedica una sezione speciale proprio alla Porta del Fortino, da cui estraggo alcune sintetiche informazioni. La porta trionfale, vista dal punto di vista simbolico, è un simbolo multiplo, un simbolo che contiene altri simboli, un cartiglio geroglifico: come ben si avvede l’esperto autore dell’articolo richiamato, già il nome è una falsa partenza. La porta è chiamata “fortino”, ma non è il fortino, che si trova nei pressi, ma altrove. E’ dedicata a Re Ferdinando, ma sotto sotto covano le fiamme della Fenice, simbolo che manifesta simpatie protestanti e illuministiche. Il richiamo allo storico inglese Denis Mack Smith, che Zermo ha avuto la ventura di intervistare, permette un rimando finale, poiché Mack Smith è autore della più importante tra le biografie moderne su Mazzini: e questa nota concerne la non assimilabilità tra Garibaldi e Mussolini perché, per quanto guerre e rivoluzioni producano sempre spargimenti di sangue e terrore, il Risorgimento di Mazzini e Garibaldi aveva una idealità diversa da quella della realizzazione che ne seguì come effetto dell’annessione al Regno di Piemonte (sulla cui scia si innesteranno i Patti Lateranensi, a compimento della restaurazione guelfa). Questo “tradimento delle speranze del Sud” fu piuttosto la scelta di Cavour e dei Savoia, che respinsero Garibaldi nell’esilio dorato di Caprera e operarono politicamente per ignorare e calunniare Mazzini, che infine, con le sue idee di emancipazione del popolo attraverso educazione e istruzione per tutti, è quel poco che ci rimane di patrimonio ideale nella concezione della nostra maltrattatissima eppur sempre amata Italia.

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