1. COME SE I SOLDI FOSSERO LA VERA RICCHEZZA
Collegare il benessere alla situazione economica soggettiva: questa è un’idea che non troviamo nella filosofia classica, dove ancora era chiaro che la nostra esistenza è transeunte e non possiamo portare con noi i beni materiali nell’oltretomba.A riscoprire questa tutt’altro che evidente ovvietà ci aiuta Karl Paul Polanyi,un economista, sociologo, antropologo e filosofo ungherese, noto per la critica della società di mercato espressa nel suo lavoro principale, “La grande trasformazione, le origini politiche ed economiche del nostro tempo“, in cui pose le basi di una antropologia economica e della filosofia della condivisione.
L’eguaglianza ricchezza=benessere è quindi un’idea moderna, non un dato necessario. La critica di Polanyi incide su altri aspetti rilevando che, ancora nell’economia classica, il mercato non conteneva il segmento del lavoro, che era lasciato a determinazioni etiche. Anche questo dunque è un aspetto decisivo nel processo di mercificazione delle persone, l’equiparazione del lavoro a qualsiasi altro mercato. Più recentemente, Bauman ha coperto con eleganza questa verità, chiamando “società liquida” questa dimensione in cui tutto è equiparato ad un solo valore, liquido per eccellenza: quello del danaro.
Esiste ancora un’economia non contabilizzata?
Se così fosse, dovremmo cercarla negli schemi dove sopravvive il valore della reciprocità.
L’antropologia, con le ricostruzioni degli schemi che regolano le società tribali (da Frazer a Mauss, passando per Levi-Strauss), ai processi di istituzionalizzazione dei re e dei sacerdoti, conduce fino alla nascita degli stati moderni in Europa. Qui possiamo notare come il privilegio aristocratico, basato su rapporti di forza generazionalmente tramandati mediante la mediazione del clero, abbia finito con il cristallizzarsi di fronte all’emergere di un nuovo ceto mercantile, la borghesia, che, dove non ha trovato spazio altrimenti, ha condotto ad esiti rivoluzionari.
Queste rivoluzioni hanno innalzato a vessillo il principio di equità sociale, ottenendo importanti risultati di modernizzazione della società in termini di principio ma il ceto mercantile, principale vettore di queste tensioni, si è fermato alla enunciazione del principio formale di eguaglianza di fronte alla legge, senza pervenire a dare effettivo contenuto all’eguaglianza economica, almeno delle opportunità. Al contrario, le correnti dell’economia politica classica si sono affrettate a giustificare il libero mercato e il libero scambio come sistemi perfetti.
2. IL MERCATO COME SISTEMA PERFETTO?
Tutta l’economia classica è concentrata su questo tema che, alla fine, non è che un concepire un sistema teorico adatto a favorire il potere del più forte e la concentrazione oligopolistica della ricchezza.
Di fronte all’euforia della rivoluzione industriale (tecnologia, cioè applicazione di capitale al lavoro), non sarà soltanto Marx a sostenere che il libero mercato conduce a un sistema di sfruttamento da parte dei più ricchi verso i ceti subalterni. Storicamente, le crisi che si sono susseguite, tra cui, terribile, quella del ’29, dimostrano che il mercato non è in condizione di autoregolarsi, che occorre almeno un’autorità garante per il suo corretto funzionamento, che sia capace di operare l’intervento redistributivo dello stato e ponga a fondamento la tassazione progressiva, riconoscimento che la ricchezza è un prodotto sociale.
Sotto il profilo della necessità dell’intervento statale, sarà John Maynard Keynes a concepire il sistema economico più compiuto per concepire l’economia sociale di mercato. Il sistema keynesiano diverrà la base dell’economia del dopoguerra, dal new deal di Roosevelt alla ricostruzione europea dopo la II guerra mondiale. Keynes dimostra con chiarezza che il capitalismo non riesce a dare la piena occupazione perché, strutturalmente, il risparmio non investito e il lavoro non occupato producono un deficit di domanda (ribaltando così l’assioma dell’economia classica, la cosiddetta legge di Say, in base alla quale l’offerta genera una corrispondente domanda). Dimostrando l’infondatezza di questa astrazione, Keynes introduce la spesa pubblica per investimenti come strumento di sostegno della domanda e una politica dei titoli di stato idonea a fare in modo che i risparmi privati vadano a sostenere gli investimenti pubblici, ottenendo quel che lui chiamava effetto moltiplicatore, matematicamente determinato dal rapporto 1/1-c, e cioè dall’inverso della propensione al risparmio.
Questa teoria, applicata in modo differente e adattato alle diverse situazioni di politica economica dei diversi stati americani ed europei che l’hanno scelta, ha determinato il successo e lo sviluppo dei sistemi economici dei paesi che l’hanno adottata, contribuendo in modo più significativo a generare i “trenta gloriosi anni”, dalla fine degli anni ’40 alla fine degli anni ’70, in cui si è registrato il cosiddetto boom, dando espressione ad una costante crescita e ad un incontrovertibile progresso.
Lo shock petrolifero del ’73 fu la prima avvisaglia di nuove tensioni che, per il vero, sono molto relativamente in rapporto con il sistema economico keynesiano e molto di più con le politiche imperialiste in tema di estrazione di energia dai paesi ex-coloniali dell’Africa e del Medio-Oriente. Mentre l’Occidente, con la caduta del muro di Berlino inondava il mondo delle informazioni televisive con annunci trionfalistici della “vittoria del mondo libero” (cioè del libero mercato, mentre annunciava le intenzioni di “esportare democrazia” in tutto il mondo, non rinunciava affatto alle politiche di sfruttamento e, in un progressivo inasprirsi dei rapporti con i paesi produttori di petrolio, alla fine degli anni ’90 inventava il pretesto delle armi chimiche (che si rivelerà poi manifestamente infondato e creato ad arte dai servizi americani) per scatenare guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein.
Mentre ciò accadeva, il fronte delle politiche economiche, interno ai paesi occidentali, era aggredito dalle nuove teorie di Friedman e Von Hayek, politicamente impersonate da Reagan prima e Bush poi e, in Inghilterra, dalla staffetta Thatcher-Blair (sebbene la Thatcher sia dei Tories e Blair dei Labour, nessuna sensibile differenza è riscontrabile nelle scelte di politica economica e, ancor meno, di politica estera).
3. IL PRIVATO ESPROPRIA IL PUBBLICO
L’aggressione alla teoria keynesiana si giustificava sulla base del fatto che la spesa pubblica genererebbe spreco. In effetti, più che alla teoria keynesiana, questa colpa dovrebbe ricadere sulle cattive gestioni di segmenti di spesa pubblica, sprechi, opere inutili e, ancor peggio, l’abitudine a fingere spesa per investimenti (l’unica che nella teoria keynesiana può anche generare temporanei bilanci in disavanzo) quella che in realtà è spesa per consumo. La propaganda serrata e feroce contro il sistema pubblico, fatta in quegli anni e che ancora continua, ha pervaso l’opinione generale, gettando discredito sul sistema pubblico e contribuendo a fare gli interessi della finanza privata, che continua il processo di sottomissione degli stati nazionali mediante la costruzione, voluta e studiata, del debito pubblico.
Sotto il profilo teorico, alla fine le teorie della scuola cosiddetta “monetarista”, trovano il loro grimaldello per scardinare il sistema proprio nel moltiplicatore keynesiano, cambiando il metodo del famoso 1-c. Se il sistema keynesiano era orientato ad utilizzare questa differenza (chiamata s, cioè save, risparmio) spingendo i singoli risparmiatori ad investire in titoli di stato, il nuovo modello monetarista cambia strategia e intende portare tutto a consumo, Nessun risparmio, al contrario spesa per consumo anche oltre l’1: e quindi sovraindebitamento di ogni cittadino, credito al consumo, carte di debito, di credito, insolvenze, recupero di insolvenze, titoli spazzatura e ogni inquinante diviene improvvisamente lecito e, addirittura, auspicabile. Si inventano titoli paniere per mescolare titoli solvibili e titoli spazzatura, con mix differente, che può variare da 90% solvibile e 10% spazzatura a 90% spazzatura e 10% solvibile. Crollano banche, si innescano fallimenti cui non resiste nemmeno il vecchio detto “too big to fail”. Chi ripaga? Il pubblico, naturalmente. E ogni volta che ha finito di pagare è più debole. I vertici non reagiscono perché non comprendono? No, perché sono pagati troppo per disobbedire a chi li governa davvero.
Nel frattempo insorgono movimenti di libertà nei paesi ex-coloniali, che domandano democrazia: le “primavere arabe”. E cosa ottengono dall’occidente “esportatore di democrazia”? Silenzio all’inizio, pugno di ferro poi. Smantellamento degli stati più ribelli (Libia, Siria). Bavaglio comunicativo e cessazione dei flussi di turismo per gli altri (Tunisia, Egitto).
Sul fronte interno europeo: conflitto generazionale, smantellamento del welfare state, divisione e sottodivisione del sistema del mercato del lavoro per indebolire le forme di rappresentanza, corruzione dei sindacati, polarizzazione degli stipendi e aumento vertiginoso delle differenze retributive tra operai e manager, distacco dei manager dai quadri dirigenti, enfasi sugli sprechi del sistema pubblico e silenzio sugli sprechi (spesso peggiori) del sistema privato: sono questi i principali fattori che hanno costellato la vita del XXI secolo, registrando un aumento nella concentrazione della ricchezza e molti passi indietro rispetto alle conquiste sociali fiorite nel dopoguerra e fino agli anni ’70.
4. I BENI COMUNI COME ULTIMA FRONTIERA
Il punto di partenza per esaminare i beni comuni è dato dall’assunto che non è opportuno trattare ogni cosa come fosse merce. Non c’è motivo di farlo, non è una necessità inderogabile: è una scelta. Ed è una scelta che conviene a chi è più ricco, cioè agli oligopolisti.
Abbiamo richiamato sopra le idee di Polanyi rifiuta di trattare come merce il lavoro. Allo stesso modo la natura, che non può essere considerata soltanto proprietà terriera. Anche la moneta non può essere lasciata alla libera fluttuazione, ma va regolata pubblicamente (in rapporto ai tassi di interesse, principalmente). Lo sviluppo non può essere misurato soltanto in termini di consumo di beni. Anche perché, oltre che ragioni di equità sociale, ci sono ragioni ambientaliste, di ecosistema, che vanno prese in considerazione: non può essere considerato sviluppo l’abuso di una risorsa fino a distruggerla per sempre. Questo è ciò che rischiamo con i mari, con le foreste, con l’atmosfera.
Da qui prende consistenza il concetto di beni comuni, cioè di risorse che non dovrebbero essere riconducibili a proprietà privata.
Possiamo stabilire alcune semplici equazioni:
Sostenibilità ambientale=non compromettere le risorse per le generazioni future.
Sostenibilità sociale=migrazioni, sistemi di integrazione internazionali.
Date queste coordinate, potremo distinguere tra un approccio giuridico e un approccio economico.
Per l’approccio giuridico, richiamando Rodotà, s’intendono beni comuni quelli funzionali all’esercizio di diritti fondamentali e al libero sviluppo della personalità, che devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela nel mondo più lontano, abitato da generazioni future. In breve, si tratta di tutela in ragione della funzione che questi beni esercitano per la società.
Nel disegno di legge della “Commissione Rodotà”, la definizione di beni comuni era inerente “le cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio delle libertà fondamentali della persona”. Questa logica infrange la dicotomia pubblico/privato e guarda alla funzione e alla gestione, intesa come salvaguardia per l’accesso e il mantenimento: i beni pubblici sono a titolarità diffusa, tutti devono potervi accedere e a nessuno è data la piena esclusività.
Questi beni sono soggetti a regime vincolistico. Non sono beni di mercato.
Si possono individuare tre categorie di beni comuni:
1) beni di sussistenza (acqua, terra, foreste, pesca);
2) beni comuni globali (atmosfera, clima, oceani, sicurezza alimentare, pace, conoscenza, brevetti, internet);
3) servizi pubblici (acqua, luce, trasporti, sanità, sicurezza alimentare e sociale, amministrazione della giustizia.
Per l’approccio economico, richiamando Paul Samuelson, i beni pubblici sono beni non rivali e non escludibili, nel senso che possono essere simultaneamente fruiti da molteplici persone e non è possibile escludere qualcuno. Tuttavia, la scarsità dei beni può essere un limite, perché abbassa la qualità della fruizione e, al limite, la distruzione del bene. Ad esempio, l’assistenza sanitaria è un bene privato fornito pubblicamente (es.: assegnazione di casa popolare). Da qui emerge un’altro nodo del problema.
5. LA TRAGEDIA DEI BENI COMUNI
“Common’s tragedy” è il titolo di un saggio di Garrett Hardin, ecologo statunitense. Da questa impostazione ricaviamo la traccia del problema principale che ammanta ogni bene comune: un bene di tutti è soggetto a sovrasfruttamento, deterioramento e distruzione. Nelle nostre società, l’interesse individuale prevale sull’interesse collettivo. Agganciandosi a questo nodo fondamentale Elinor Ostrom (unica donna ad aver ricevuto il Nobel per l’economia), nel suo saggio “Governare i beni collettivi”, ha avanzato la tesi in base alla quale né la gestione autoritaria-centralizzata né la privatizzazione costituiscono soluzione: occorre lasciare alle comunità la elaborazione endogena di istituzioni deputate alla loro gestione. Diritti e doveri nella gestione del bene. (Governing the commons). Da questo passaggio dal binomio “comunità-partecipazione” al binomio “soggetto-diritto”, con la prevalenza del valore d’uso sul valore di scambio, derivano otto principi per la gestione dei beni comuni:
- chiara definizione dei contenuti del bene e di chi ha diritto a parteciparne;
- regole adattate al contesto locale;
- modalità di scelta collettiva;
- monitoraggio effettivo;
- sanzioni progressive;
- meccanismi di risoluzione dei conflitti;
- autodeterminazione delle comunità riconosciute dalle autorità di alto livello;
- modularità dei soggetti di gestione.
6. NON E’ SUFFICIENTE LA TEORIA, MA BASTA IL COMUNE BUON SENSO
In un’epoca di declino del concetto convenzionale di “pubblico”, beni comuni costituiscono l’ultima ancora per la gestione democratica, poiché in essi convergono tutti gli aspetti della partecipazione, della imparzialità, della parità di condizioni, di responsabilità sociale. Non è sufficiente il movimentismo, che deve trovare corrispondente assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni. Non è accettabile il declassamento dei diritti della persona a diritti del consumatore o a temi cosmetici che deviano l’attenzione dal problema sostanziale del diritto di ciascuno a condurre una vita che possa contribuire all’accrescimento del valore spirituale. E, se non è accettabile la teologia del libero scambio (chi vuole, rilegga Il capitalismo e l’etica del protestantesimo di Max Weber), non è accettabile nemmeno l’arido materialismo storico di Marx e dei neo-marxisti. Occorre elaborare una nuova strategia, non pregiudizialmente ideologica ma fondata sul senso comune. Non si tratta di cose complicate, ma di gestire le risorse senza sprechi. Come ogni persona dotata di senso farebbe a casa sua. Alla fine oykos nomos, da cui deriva il termine “economia”, non significa che “gestione della casa”.
Concludendo con Amartya Sen, il tema dell’economia dev’essere l’accrescere la libertà personale. Alla democrazia giuridica intesa come formale eguaglianza di fronte alla legge, deve accostarsi una sostanziale DEMOCRAZIA ECONOMICA, intesa come capacità effettiva, economicamente fondata, di far valere i propri diritti.
Davide C. Crimi
FONDAZIONE M