#Godard

Godard: adorable, intolérable.

Parlare di Godard è fare a pezzi la parola inutile che sorge dal consolidamento a-ri-ghes-cler. Gli attrezzi del mestiere (Ghezzi lo sa, Guglielmi blob) sono gli strumenti del decostruzionismo filosofico (Foucault, Klossowski etc) e politico (Sartre, Marcuse etc). L’inevitabile rischio è la sostituzione di una parola inutile con un’altra parola inutile. Per non cadere su questa pietra d’inciampo il rimedio è una mistura che richiami la grande pittura, giochi con il nudo e sappia rendersi incomprensibile a più livelli. In certi momenti, con questo sistema si raggiunge davvero l’illusione di una comprensione superiore.


Il disprezzo, Jean-Luc Godard

Godard non sarebbe d’accordo. Anche io non sono d’accordo. Dissento e non solo sul concetto d’illusione, ma sull’idea d’arte in generale e in particolare. È chiaramente frutto di errata comprensione, ed il limite dell’analisi si potrebbe con qualche successo ricercare nel fraintendimento occidentale del maoismo, o nell’internalità ‘aristorghese’ della fonte della critica. L’esito è un disilludente viaggio nelle immagini attraverso  frantumi di storie, l’impossibilità di costruire alcunché di duraturo, foss’anche una celebrata ‘sympathy parisienne’ in veste di documentario casuale, un qualsiasi ‘laborintus’ traboccante di falsa ingenuità.

Godard, con i suoi film «invedibili» (che poi non sono né invedibili, né film), ci invita in un luogo che è al di là della sopportazione dei mediocri. Questo è il punto più alto d’interesse alla voce “Godard”. Chi osa, dovrà praticare un linguaggio diverso, incomprensibile alla volgare maggioranza. Chi non è all’altezza, si eliminerà da sé, sentendosi espulso. È un modo per dire «non sono come voi». Grandezza e limite, ottenuti per distillazione del quasi niente della metafisica materialistica.

Fondamento per la comprensione di questo linguaggio non è la classe sociale di appartenenza (in quanto, di per sé non è automaticamente elitario), ma la disponibilità all’estraneamento, all’autosegregazione rispetto all’alienazione capitalista dell’intrattenimento. Diversamente da Kubrick, che mima il tentativo maldestro dei ceti popolari di emulare lo stile di vita dei ricchi citando per equivoco l’immagine distorta di qualche frainteso compositore, Godard tenta di raccontare al popolo il niente del potere e il nulla della cultura: e cioè prova a svelare il grande inganno; ciò che non si può fare con le parole, e dunque lascia sempre il senso di un «non ho capito» che non ha più nemmeno la maschera del mistero, e nemmeno la moderna regalità dell’ipocrisia borghese.

L’impresa è perduta. La vita è andata via, il dissenso resta, al punto che G. ha detto lui quando. Resta un libro d’immagini, del quale non si può dire né «mi piace» né «non mi piace» ma solo «esiste» oppure eppure «non è» in quanto «non sono».

Jean Luc

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