Coloro che non conoscono il mondo dell’editoria crederanno forse ancora alla favola ottocentesca dell’editore in cerca di talenti, di grandi scrittori. Questo articolo è per codesti costoro.
Baudelaire dichiarava sprezzante: «Leggo solo autori morti», sottolineando tutto il valore del libro, che non sta per niente nella celebrazione del divismo e sta tutto invece nella capacità del libro di farsi veicolo di comunicazione intertemporale tra vissuti e viventi. Ogni scritto sincero è testamento, cioè memoria.
La rumorosa congerie dei contemporanei ignora abbastanza questa fondamentale conoscenza, e molti s’illudono di scrivere il libro che gli cambierà la vita, attraverso il successo. Per questa ragione, scrivono delle cose, spesso senza neanche rileggerle, e poi si presentano all’editore con aria a metà tra la rockstar e il disperato.
Se l’editore è sincero, propone allora la stampa con acquisto obbligato dell’autore di almeno 200 copie a prezzo intero. Non è del tutto sbagliato, perché l’editore deve coprire i costi. In questo modo l’autore si è trasformato in aps, cioè, come diceva Eco con professorale disprezzo della plebe, “autore a proprie spese”.
Certo, questa non è la regola generale. Chi dispone della miglior merce del nostro tempo, che è la notorietà, può risultare interessante all’editore, se può ritenere “facile” la vendita di 5-10.000 copie o più. Questo genere di autore di solito non cerca editore, piuttosto, è il contrario.
Poi c’è un altro caso fortunato, che è quello del potere. C’è chi fa stampare le proprie opere con soldi pubblici, c’è chi può utilizzare la propria posizione per imporre il suo libro, come ad esempio un professore che inserisce il suo testo nel piano di studi d’ateneo.
Fuori da queste ipotesi, resta veramente poco. L’autore ha poche chances. Anche perché chi ha qualcosa da dire si trova a concorrere con tanti che non hanno niente da dire ma un libro l’hanno scritto lo stesso, foss’anche per il semplice desiderio di vedere il proprio nome sulla copertina.
Tutto ciò non è né giusto né sbagliato. È solo quel che è. Se mai, una notazione critica si potrebbe fare per le scelte culturali che hanno caratterizzato l’editoria italiana. Su questo il libro «L’impronta dell’editore», scritto da Calasso per Adelphi di cui era vertice editoriale, rivela molto dell’Italia del Novecento e della egemonia borghese sulla letteratura del cambiamento col tappo a sinistra.
La condizione di minorità in cui è stata relegata la letteratura dell’irrazionale è un fatto che non è stato utile all’emancipazione. Noi di Fondazione M guardiamo avanti. Anche dove non si vede nulla.
