Scrivere come atto magico

non significa di sicuro quel che hai pensato, ma potrebbe anche significarlo, se potessi fermare il significato. Lo “scriba degli dèi” è l’archetipo di una concezione antica e perenne, che fa dello scrivere l’atto magico per eccellenza, superiore al rito stesso: perché il rito si dissolve nel momento in cui si è compiuto, e quello che resta è soltanto il resoconto di ciò che è accaduto, cioè la trascrizione.

The Autobiography Model Calligraphy. Huai Su, Tang dynasty

Alcune interpretazioni radicali sostengono che non c’è atto magico senza trascrizione; addirittura taluni si spingono ad affermare che la trascrizione è l’atto magico e che questo è in certo qual modo più potente e più rilevante del rituale. Naturalmente, questa è un’affermazione da scrittori, che non sarà condivisa da chi preferisce esprimersi con la musica o con la danza.

Possiamo mettere in discussione qualsiasi cosa, ma di certo dovremo convenire sul fatto che se continuiamo a sentire il fascino di organizzazioni come i circoli R+C o altre essenze del pensiero magico, o anche quelle propaggini che hanno preso consistenza dissacrante, come nel caso delle avanguardie del dada e del surrealismo o, ancora, di quelle forme che hanno conquistato una prossimità con la psicoanalisi, se questo fascino può a noi in una forma o nell’altra trasferirsi e permearci, questo lo si deve alla condizione letteraria che la loro trasmissione ha raggiunto, altrimenti non ne avremmo nemmeno memoria.

Sbalordisce l’affermazione che tutto questo non è necessario, in nome di una pretesa purezza del cuore. Nel tentativo di accogliere questo contenuto, poiché la verità è ben più grande del pensiero individuale, si può accettare l’eventualità che non sia necessario trascrivere tutto per il singolo che medita: eppure, anche in questo caso, come faremo a tralasciare che quasi tutte le tradizioni iniziatiche esortano il novizio ad intraprendere un diario?

E poi, cosa resterebbe a noi moderni dell’antico senza i geroglifici? O degli antichi sumeri, senza le iscrizioni cuneiformi? E non è forse per questo, per la sua tenacia nel mantenere le scritture dei padri, che la cultura ebraica realizza la sua egemonia? E non è forse attraverso le loro riviste, e la letteratura che vi gira intorno, che sentiamo ancora risuonare i nomi di Ordini iniziatici di secoli or sono?

Persino quando parliamo di operazioni di contatto con altre entità, come nel caso di Dee e Kelly, della Blavatsky o di altre personalità influenti, non parliamo forse della trascrizione di questi eventi?

E’ vero: le parole sono fatte per i fraintendimenti. Taluno ritiene addirittura che con la scrittura non si dovrebbe affatto innovare, ma solo confermare ciò che è già stato definito. Ma se anche così fosse, resterebbe il tema dell’interpretazione: perché le parole non sono arginabili nel loro produrre significato e, soprattutto, storia.

Le organizzazioni che massimamente funzionano sono quelle che istituzionalizzano e istituzionalizzarsi significa mantenere memoria stabile dei propri atti, e cioè istituire un archivio numerato e catalogato per ambito e materia, ciò che si dice un protocollo.

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