Europee: analisi del voto

[L’Elzeviro]

Dati Italia. Fonte: ANSA

Se analisi dev’essere, che sia cruda. Tenuto conto che il Parlamento Europeo è un organo pleonastico che non può nemmeno sfiduciare la Commissione, forse quest’ala di dissenso potrà portare un rinnovamento, va bene. Ma quali sono i se e i ma?

La politica sull’immigrazione non può continuare ad essere il teatrino degli accordi di Dublino, fatti su misura per i Paesi dell’Europa continentale e industriale, questo è certo e non può essere negato da nessuna retorica dell’accoglienza, che è solo un atteggiamento miope che non vede la causa essenziale che determina l’immigrazione, che ha un nome preciso: imperialismo sui paesi dell’Africa.

In Francia la Le Pen (24,7%) supera Macron (21,62%); in Polonia trionfano gli ultraconservatori del PIS; Orban in Ungheria vola al 56%; in Austria Kurz, malgrado gli scandali recenti, vince ancora; in Inghilterra il più accanito sostenitore della Brexit, Farage, vince.

In Olanda Timmermans, che ha fatto un lavoro immenso, con la campagna elettorale meno nazionale tra tutti i candidati, vince con i laburisti; accanto alle coalizioni centriste, in Germania e in Irlanda c’è un boom dei verdi; in Grecia “Nea Democrazia” supera “Syriza” e Tsipras annuncia elezioni anticipate.

Cosa accadrà? Lo si è detto in apertura: è solo un gioco democratico. Il Parlamento Europeo non può fare quasi nulla. Il potere effettivo è in mano a un altro organo, la Commissione, che sente più il controllo dei governi nazionali (attraverso il Consiglio Europeo) che non quello del Parlameno, verso il quale non ha l’obbligo della fiducia. Gli atti parlamentari difficilmente riescono ad incidere sulle Direttive della Commissione, che sono gli atti che influiscono direttamente sulle legislazioni nazionali. Per come è fatta oggi l’Europa, il Parlamento è solo la gentile concessione di un pleonastico senato simbolico alle classi borghesi che riescono a farsi eleggere dalle circoscrizioni territoriali, che conferisce al singolo eletto uno status di notabile e nessun reale potere di influenza sulle politiche.

L’irruzione sulla scena europea di una classe nuova di notabili avrà dunque un effetto di apparente “circolazione delle élites”, che però è già arginata da una sostanziale mancanza di potere. In termini politologici, stante il sistema degli organi comunitari, non si tratta di vere “élites politiche” quanto di “notabili” pagati perché rimangano in un giardino consociativo, senza nuocere al vero potere.

Da questo punto di vista, il dato italiano è molto interessante, ancor più qualora si faccia un focus sul sud: il M5s resta il primo partito (29%), ma la Lega fa un balzo formidabile con il 23%. Il Partito Democratico resta alle spalle con il 18% dei voti presi alle Elezioni Europee; Forza Italia tiene botta con il 12%

Una lettura clinica del dato porterebbe in risalto l’inveterata abitudine italica, ma specialmente meridionale, a “saltare sul carro del vincitore”: l’elettore dovrebbe aver considerato però – e di certo non lo ha fatto, nel valore medio – che la Lega e il M5S non sono la DC e il PSI della Prima Repubblica e che oggi non è possibile risolvere le crisi economiche stampando soldi che magari all’estero non valgono nulla ma internamente fanno tirare a campare.

La ricetta mista di nazionalismo e giustizialismo suonerà come una condanna per tutte le situazioni insostenibili di cui l’economia italiana è satura e, come sempre, il capro espiatorio sarà il Sud che quindi rischia di aver votato la sua eterna punizione, ancora una volta. Con un siciliano arcaico, si potrebbe dire che, more solito, “a sciarra è pa’ cutra”, che il motivo del contendere è la coperta: e così la coperta oggi l’abbiamo data in mano a un decisore lontano e poco interessato, che forse non è nemmeno il vero decisore.

Non sarebbe giusto dare i giochi per fatti, e non si può trascurare l’ipotesi ideale che questo ricambio e il successo della Lega e del M5S al Sud trasformi queste organizzazioni in veri partiti capaci di cogliere l’interesse nazionale: ma questa possibilità è ostacolata da nubi identitarie e dallo “zoccolo duro” del consenso.

A ben vedere, il rischio più grande non è neppure questo: perché c’è qualcosa di ben più forte e meno immediatamente comprensibile. Il vero pericolo è che trionfi la strategia Bannon che porta il vento atlantico, e cioè utilizzare il nazionalismo populista, attraverso le fatali tentazioni del capitale, per attuare un bel giochino a “spacchiamo tutto”, cioè a distruggere l’Europa dall’interno, da dentro, come le posizioni più ultraliberali pensano già da tempo di fare. Questo il vero rischio.

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