Romanzo della Gurfa

Caterina Luisa De Caro è scrittrice insieme lieve e grave. Le sue elaborazioni semantiche finiscono invariabilmente dentro un enigmatico labirinto.

L’abbiamo già seguita in alcuni di questi percorsi, tra cui, memorabile, la diade sui “giardini esoterici”: di Capalbio – Il giardino dei tarocchi: il gioco di Niki (De Saint-Phalle) – e di Bomarzo – Bomarzo: la dea nel suo giardino.

Se in queste precedenti avventure del pensiero l’Autrice ha sempre potuto avvalersi di un percorso segnato – il filo d’Arianna dato dalla sequenza dei simboli che sono tracciati nei due Giardini – questa volta Caterina si perde. E lo fa inavvertitamente, senza accorgersene. Forse perché persuasa di “tornare a casa”, forse perché le vestigia che indaga questa volta non appartengono né al Novecento – come nel caso di Capalbio – né al mondo comunque “moderno” del XVI secolo – nel caso di Bomarzo – ma affondano le loro radici in una molto meno familiare e più inimmaginabile Sicilia dell’età neolitica.

Identificatasi latamente nella protagonista del romanzo, Ara, Caterina viene inghiottita, a metà tra le emozioni in subbuglio di Alice e i dubbi della mente raziocinante del professor Lidenbrock, in un viaggio al centro della terra attraverso la misteriosa porta della Gurfa, che la foto di copertina (di Mario Ricotta) annuncia come fatale destino, ed insieme promessa catartica di conoscenza e ricompensa spirituale.

In precario equilibrio tra saggio e romanzo, i personaggi che affiancano la protagonista – Mathaca, la sciamana anziana; Metho, l’amore impronunciato di Ara; Ura, Mussu e gli altri – appaiono come ombre eteriche dai contorni incerti, liminali nell’indifferenziato che sfuma nel collettivo – come il popolo degli Shekelesh oppure come lo sciame delle api nere da cui l’Autrice, con ardore, fa derivare il termine sciamano.

Si perde, Caterina, ma la sua forza di intuizione la fa sognare in grande, evocando atmosfere incantate che sono più che orfiche e tentano di risalire a una Sicilia pre-greca che è tanto plausibile quanto la sua non-esistenza, eppure sostenuta da un idealismo che prende forza annunciando il cammino di risalita e, con uno sguardo alla Via Lattea, commuove nel ricordo degli astri, le vaghe stelle, archetipi ultimi dell’immaginabile.

Questa tensione tra il cuore e la mente può fare da specchio al lettore che cerca la sua anima sognante, ravvisando la possibilità di un’indefinita operazione alchemica tra zolfo, sale e mercurio che abbia la forza di scardinare gli errori della mente (ir)razionale, perdonando qualche indicazione di rotta da rivedere, come quando si indica Sirio come stella più brillante del cielo estivo, per constatare il potere illusorio dell’orizzonte, augurando con gesto ermetico una fortunata traiettoria e una aruspice seconda edizione.

La forza di questo racconto sta nella sua volontà interna di espugnare un segreto, anzi, il segreto, rispetto al quale l’Autrice, attraverso la rete protettiva della scrittura – intesa come nel pensier mi fingo – può inabissarsi in rituali iniziatici altrimenti destinati a mettere in soggezione l’anima impaurita. Diventa Ara e quindi, semanticamente, oltre al personaggio di questo romanzo, si fa inconsciamente altare dell’offerta sacrificale della parola.

Tenta così la sua catarsi: e chi leggerà potrà immedesimarsi e accedere, se lo vorrà, a quell’onirico eterico che è il territorio delle emozioni indistinte, sospeso tra riti persefonéi di pubertà e ancestrali richiami iblei, per compiere il passo iniziatico che lega ogni nascita al passaggio oltre la soglia della morte, protetti e minacciati dalla terribile e divoratrice, colma d’amore e generosa Dea Madre.

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