La Pace, commedia o tragedia?

Per nulla facile e spiazzante, proprio come dev’essere considerare la pace in ogni tempo. Con un tema simile, si rischia d’essere retorici ad ogni istante, per ogni sequenza narrativa, per ogni parola. Il testo di Aristofane offre punti di aggancio per restare attuali al di sopra della soglia della banalità. Questo è un testo irrisolto, mai del tutto completato, oltremodo lungo, privo di un vero completamento. E poi, soprattutto, c’è lo spettro del comico. Chi pensa Aristofane in questo decennio ha in mente Le Rane di Ficarra e Picone, dunque vuole ridere, magari in modo colto e con un occhio al mondo classico, ma vuole ridere.

La Pace, di Aristofane. Regia di Daniele Salvo. Siracusa, Teatro Antico. INDA 2023

Daniele Salvo è regista d’esperienza, viene da una formazione a fianco di Luca Ronconi, uno dei grandi nomi del teatro del Novecento italiano e internazionale. Avvalendosi della traduzione di Nicola Cadoni, prende parte alla trasformazione del testo, al riadattamento, dà luogo alle metamorfosi necessarie per ottenere un risultato inatteso e spiazzante: la commedia oscilla, a tratti leggera e frivola, a tratti abissale sul registro della tragedia. L’irenea Dea della Pace (Jacqueline Bulnés), sfuggente come una Musa, appare insieme alla Dea del Raccolto (Federica Clementi), memore dei Misteri di Eleusi, e alla Dea delle Feste (Gemma Lapi): tutte sono mascherate, insondabili.

Già questo artificio annuncia lo stile e il metodo che il regista imprime sulla rappresentazione, con un contenuto implicito che scardina la convenzione ordinaria del registro comico. Reintegrato nella sequenza dei grandi tragici, Aristofane appare come il critico di Euripide, cioè l’istanza consapevole della decadenza del mondo greco, dove l’iperbole degli dèi (Eschilo) è tramontata, come anche le leggende degli eroi perdenti del mondo antico (Sofocle cantore delle sciagure dei Labdacidi) e non resta che un volgare travisamento del senso del sacro il cui più alto esito, più che il manierismo di Euripide, è il consapevole disincanto di Aristofane.

A dare consistenza a questa tesi non è soltanto qualche passaggio contenuto nel testo che pone direttamente, concretamente e apertamente Aristofane come critico di Euripide, ma soprattutto la sequenza di soluzioni sceniche che fanno dell’alternanza tra scene comiche e scene drammatiche il contrasto tra la pochezza del mondo umano e l’inarrivabile distanza del mondo degli dèi. Questo vuoto contiene anche la potenza distruttiva incarnata da un terribile Pólemos (Patrizio Cigliano) con l’artificio di un tappeto raffigurante il Mediterraneo che ricopre tutto il proscenio, che finisce risucchiato sotto terra attraverso il progredire di crudeltà delle parole del dio.

Non è questa l’unica invenzione dello spettacolo: si potrebbe far menzione del braccio meccanico che pone in volo l’insetto che porta Trigeo (Giuseppe Battiston), il protagonista umano, nel mondo degli dèi – che però hanno traslocato da poco, lasciando solo un improbabile Hermes (Massimo Verdastro) per gli ultimi dettagli. A questa invenzione sul registro comico corrisponde l’altra parte, con la pace ritrovata che diventa occasione di un banchetto che reinterpreta i sacrifici sacri in modo inadeguato e volgare. Questa sequenza innesta l’inconciliabilità tra mondo antico e mondo moderno, e tutta l’insufficienza del nostro pensare contemporaneo. Uomini mascherati in giacca e cravatta irrompono avidamente sulla scena; un venditore d’armi lamenta la sua crisi economica. Il popolo contadino della gente onesta cerca di capire, ma non ha le basi. La scena evoca l’immagine del celebre quadro Il Quarto Stato di Pelizza da Volpedo ma vede questo contado privo di ogni convinzione e consapevolezza ed infine appare un tavolo colmo di bandiere, speranzuccia che fa pensare all’ONU e alla debolezza delle sue risoluzioni, come il monologo finale della dea (Elena Poli Greco) ammette, comunque esile filo di una possibile pace futura e duratura.

La contemporaneità di un Occidente sospeso tra commedia (quanto ai fatti della politica, non sempre di buon gusto) e tragedia, dà ragione e peso all’interpretazione. Un’operazione coraggiosa e in certa misura inedita, questa regia di Daniele Salvo, che ha il merito di far riflettere su più livelli, con un registro stilistico sempre alto, non prevedibile e magistralmente proteso su uno dei temi principali della letteratura del Novecento, l’irrappresentabilità del sacro, qui riferita come chiave dell’errata comprensione degli eventi del nostro tempo.

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