Ma qual è l’utilità di un’idea di città, se c’è n’è una? E cosa succederebbe se non ci fosse nemmeno un’idea di città? Il Novecento ci ha portato a comprendere progressivamente che non esiste una realtà “oggettiva”, che le cose non sono come le vediamo (Il tradimento delle immagini, avrebbe detto Magritte dipingendo una pipa e scrivendo sotto “questa non è una pipa”), ma come le percepiamo. La nostra medesima vita, in certa misura, non è quel che è ma è quel che immaginiamo che sia: l’immaginazione, se non può abolire le condizioni date, può contribuire certamente al superamento dei limiti.

Una prima precisazione va fatta però sul concetto di “fare”: fare per cambiare non significa necessariamente migliorare. Per esempio un tornare indietro a quel liberismo che ha prodotto la crisi del ’29 e che è lo stesso meccanismo alla base della recessione economica che ha segnato il XXI secolo, dalle torri gemelle fino all’affare Lehman Brothers che è alla base della crisi bancaria del 2008 e che, strisciante, ancora perdura. Quindi, “fare per cambiare” è una frase per allocchi, di cui si può certo invitare a non fidarsi troppo. Il cambiamento dev’essere miglioramento, altrimenti è meglio non fare, non cambiare. Con saggezza orientale, Lao-Tze scriveva: “Se non c’è bisogno di fare qualcosa, occorre mantenersi nel Tao. Solo quando c’è bisogno di fare qualcosa occorre agire. Per questo il Libro del Tao è seguito dal Ching, perché quando si esce dal Tao occorre seguire la Virtù”. Se questo potrà apparire ad alcuni troppo filosofico (e non dovrebbe), mettiamo addizione di un concetto economico: la competizione sul prezzo più basso per la produzione di merci di scarsa qualità non è il modello competitivo che può andar bene per l’Italia: il nostro modello è raffinatezza e alta qualità.
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