Recensione #jazzkabarett

intervista su cos’è stata e cosa ha rappresentato – poco o tanto, poco e tanto, poco è tanto – questa rassegna

RF – Siamo in compagnia di Davide Crimi, anzi Davide Ceccoli Crimi, anzi Davide Poëbau, anzi Gorgia, anzi John Brown, autore ed ideatore di queste serate del #jazzkabarett, che hanno illuminato le notti di dicembre. Si potrebbe dire “la rassegna che ha incendiato il Nievski”…

DCC – Introduzione molto generosa, grazie. Su “la rassegna che ha incendiato il Nievski” c’è un margine che non avrebbe dovuto entrare nella realtà… Non è stato a causa nostra, non sono stato io! (Ride, ndr). I danni ci sono stati, comunque è interessante vedere come, pur in questi tempi di oblio e amnesia individualistica, sia scattata una rete di solidarietà per quello che è, più che un locale, un tempio ipogeo nel cuore della città…

RF – Ok, ma torniamo alla rassegna #jazzkabarett. Davide, da dove è partita l’idea? E poi, personalmente, vuoi dirci qualcosa su tutti questi pseudonimi?

DCC – Volentieri. Partirei dall’idea, che scaturisce da un brillante pretesto di chi ci ha ospitato, e cioè Saro ”Nievski” Urzì, che ha postato un segnale interessante, chiedendo (a sé stesso e agli altri in potenziale ascolto): ”Ma com’è che musicisti e musicanti di questa città e dintorni non fanno altro che cover e non c’è nessuno che fa canzoni nuove?”

RF – Interessante. È un po’ come dire: dov’è finita la città creativa e musicale, la regina nascosta dell’underground italiano, la Seattle del Mediterraneo..? Ok, ma non temi che siano immagini un po’ logore, ormai inattuali?

DCC – Hai colto il punto. Si tratta di dare un nuovo significato a queste idee, che sono ancora valide ma richiedono una nuova elaborazione. Sai, ci sono amici a Milano, a Roma, a Napoli che hanno osservato e commentato quello che abbiamo fatto in queste sere, e ci sollecitano a proseguire, sottolineando che c’è un epocale bisogno di spazi aperti, di luoghi dove non si faccia solo esibizione, ma dove si costruisca dialogo, luoghi che siano centri di elaborazione di arte libertaria.

RF – Potremmo dire che si tratta di ridefinire il contesto territoriale contribuendo attraverso la creazione di un paesaggio sonoro adeguato alla contemporaneità?

DCC – Senza dubbio, a patto di considerarlo come un’ambizione. Non so fino a che punto siamo riusciti; posso però testimoniare di un tentativo cosciente mediante il quale abbiamo raccontato, con parole, musica, canzoni, l’evoluzione folk del Novecento che, in modo indipendente dai contesti sociali regolamentati, ha determinato l’emergere del blues, prima come lavoro sulla coscienza delle classi subalterne dei Neri d’America, e poi attraverso la concatenazione con il folk, soprattutto in esperienze come il Newport Folk Festival e fino ad arrivare a un progressivo declino che paradossalmente trova il suo punto di svolta proprio in Woodstock e prosegue nell’allarme distonico, distopico e disperato espresso dall’onda psichedelica dei ‘70, con una deriva degenerativa che negli anni ’80 e ’90 vede affermarsi il glamour elettronico dei campionatori, che portano alti volumi, impossibilità di dialogo e meno ancora elaborazione sui diritti civili. L’utopia si ferma sostanzialmente all’erta del suicidio, come nel caso di Ian Curtis dei Joy Division o di Kurt Cobain dei Nirvana, traghettando questa attitudine alla contemporaneità del ventunesimo secolo con i comportamenti autolesionistici di Amy Winehouse.

RF – Un’analisi interessante; ma in che misura pensi possa essere deterministica, possa cioè rappresentare uno specchio della realtà anche politica di ciò che abbiamo vissuto in questi decenni?

DCC – Non spetta a me dirlo. Io posso soltanto avanzare delle sollecitazioni, delle riflessioni: che è quello che abbiamo fatto con questo incontro aperto del lunedì, inteso a configurare uno spazio di dubbio, di argomentazione, di confronto: e proprio per questo motivo abbiamo aperto a sensibilità diverse. Ogni serata è stata caratterizzata da ospiti che hanno portato voci, pensieri e contributi musicali differenti, a parte la serata inaugurale fatta interamente da me in cui, tra una pseudo-canzone e l’altra, ho arringato i presenti in sala con un discorso definito #kabarettimpegnatodaputia, con temi che non hanno  risparmiato rovelli cerebrali, tra cui l’indicazione della supremazia del realismo e del neorealismo come condanna alla società materialista con conseguente perdita dell’idealismo trascendentale…

RF – Pensi davvero che qualcuno abbia capito che c’erano queste intenzioni?

DCC – Devo dire quello che penso?

RF – Sentiti libero…

DCC – Sono sicuro che no. Però il contenuto è passato lo stesso, e ha lasciato un seme. Potrà morire nel deserto di lava, potrà essere mangiato da un insetto o da un uccello, oppure potrà attecchire come una ginestra… e sbocciare come meraviglioso fiore del disincanto sulle “umane sorti e progressive…”

RF – Uh, persino Leopardi. Nessuno ti ha detto che a volte esageri?

DCC – Al contrario, me lo hanno detto tutti. Sono stato molto criticato. Ma è stato davvero divertente. Del resto, non avrei avuto interesse a parlare di cose differenti. Ho fatto la mia parte. Gli ospiti hanno tenuto la bandiera dell’attenzione e dell’ascoltabilità. Nelle diverse serate abbiamo avuto importanti contributi: Alice Ferlito, Andrea Nicosia, Attilio Pavone, Daniele Chiaramida, Giovanni Seminerio, Susanna Basile. Da qui si è evoluta una evidente volontà di essere inclusivi e rappresentativi con ulteriori spazi aperti che hanno trovato l’innesto molto ben calibrato della poesia di Antonio Paternò del Toscano. La presenza che ha dato caratterizzazione sotto il profilo del jazz e dunque autenticità alla definizione #Jazzkabarett, può essere individuata nel contrabbasso di Andrea Marino, elegantissimo, sul quale, in una speciale serata s’è innestata anche la tromba di Sergio Montemagno. Lo stesso Saro “Nievski” ha preso parte all’espressione poetica, giungendo al canto su improvvisazioni armoniche accadute sul momento. Numerose altre incursioni interessanti, provenienti anche dagli avventori che hanno formato il pubblico-protagonista di queste serate, tra cui Giovanni Torrisi (Giotto) con le sue lunari proiezioni psichedeliche e Beppe Mignemi, con il suo repertorio di cantautori.  Devo ancora far menzione di Mirò, chitarrista e cantante giamaicano che ha permesso al contesto musicale di virare dal jazz al blues con profili di autenticità (il blues non può dirsi vero se non è nero); e poi ancora non dimenticherei la lettura del “programma di sala”, qualificante e arguta, di Valeria Sanfilippo, con accorgimenti da backstage che sono stati curati trasformando con tecnica decostruzionista i canovacci del “recitare a soggetto” durante le riunioni redazionali coordinate da Clotilde Notarbartolo.

RF – E da questa esperienza come emerge il paesaggio sonoro della nostra città? E cosa avete fatto per trasformarlo, per migliorarlo?

DCC – Per me, non penso di poter avere impresso alcun mutamento su quello che è possibile definire “paesaggio sonoro della città”: che rimane comunque quello di un luogo distratto, non abituato ad avere coscienza di sé, e per questo calpestato, maltrattato, misconosciuto dai suoi stessi abitanti, rifiutato, colmato di rifiuti e incomprensioni. Un mio brano, “‘A Muntagna di Focu”, esplora le implicazioni psicologiche del vivere ai bordi di un vulcano attivo. Starei su queste dimensioni, non vorrei cedere a una certa retorica dell’incuria, dell’abbandono. Oppure il canto di Saro Nievski, quando sono venuti a chiedergli il pizzo. C’è ragione nel voler restare nell’oblio, in quel buio in cui attecchisce la negligenza dei cittadini, dalla storica riluttanza delle istituzioni ad occupare sedi che non siano arroccate nel centro storico, contribuendo così allo stato di alienità delle periferie. Sono elementi del presente, ma non vanno presi come temi di attualità, quanto di radicati atteggiamenti che esprimono la forma mentis di questa città: e quindi innervare domande, alludere a grandi temi, a questioni esistenziali, per quanto possa sembrare lontano e astratto, è invece il punto di partenza più concreto per esercitare il tentativo efficace di accendere qualche fiammella. 

RF – Quindi, non rinunciamo all’impresa, possiamo contribuire a migliorare le cose… o no? Possiamo spiegare con termini semplici cosa occorre fare?

DCC –  Non spetta a me credo e, in generale, non spetta a chi cerca di produrre un discorso di elaborazione simbolica. Aderisco ad un orientamento che è contrario alla didascalia, al dover spiegare tutto in termini semplici. Al contrario, sto dalla parte di chi ritiene che l’unica chance di muovere linee di relazione intelligente sia nel creare interrogativi mediante l’elaborazione artistica di un linguaggio insieme autoctono e allogeno, inusuale e inconsueto. La parola che non si capisce ha una riserva di potere segreto, che è dato dal generare necessità di miglior comprensione. Questa miscela può farsi sostrato alla necessità di dare risposta alle domande: nella misura in cui accade, poco o tanto che sia, può generare approfondimento individuale, che è l’unico modo per fare cultura. Non si tratta di smerciare “pisci ca feti” ma far capire come si fa a “pescare” le idee che ci servono. Quindi, sì: generare interrogativi, fare in modo che chi ha visto manifestarsi la domanda nella propria mente vada da sé a cercare la risposta. Ecco, così si può tentare qualche passo nella costruzione culturale. Poco, e forse anche male, è quello che abbiamo cercato di fare con questa rassegna non rassegnata, che comunque ha avuto oggettivamente dei momenti di bellezza, di cui sono testimonianza gli esiti documentati con foto e filmati più o meno brevi che stanno nel contenitore social dei canali Telenievski e Telemajakovskij (così ridenominato in omaggio alle tecniche di “distruzione del testo” e di “schiaffo al gusto corrente” utilizzate per i canovacci), che potete trovare in rete.

RF – Come quando canti “Il Dio Caprone” su testo di Cesare Pavese?

DCC – Sì, è un buon esempio. Ma più che la volontà di riprendere una canzone a suo tempo censurata, “proibita”, l’intenzione è giocare, “to play” disponendo il testo su una sequenza di accordi. La notizia è che “ha suonato subito”, è venuta da sé, il che è una cosa sorprendente ma solo in parte, conoscendo dai diari di Pavese la sua forte attenzione e tensione per il blues.

RF – Come fai anche con le tue “pseudo-canzoni”, cercando attraverso gli pseudonimi. A proposito, di questo non hai detto niente…

DCC – Beh, sono più musicante che musicista. Quanto alle parole, questi simulacri di significato… credo che sia il modo più diretto per rappresentare l’identità franta di ogni persona che vive nel nostro tempo. Ogni pseudonimo è ingombrante proiezione di uno dei nostri pretesi “io”; questi ipertrofici “io” in conflitto tra loro. Se ascolti “Notte senza luna”, ci trovi un manifesto politico-antropologico dell’esistenzialismo come soglia di attraversamento del dissidio interiore. Attraverso l’operazione di dare nome a ciascuno, tento di esprimere qualcosa della condizione ontologica della modernità, il significato di essere moderni: che non c’è. L’ipocrisia delle economie di guerra, il dominio ormai palese dell’industrial military complex è evidente e drammatica testimonianza della frammentazione del senso al fine del suo annullamento. Il significato si capisce sempre meno, prende il sembiante di un grande fratello che diventa ancora più incomprensibile quando più sembra chiaro, come ordinariamente in televisione. Il punto è che non si può diventare facili, ma soltanto banali: e la banalità è l’apoteosi del tempo presente, che può salvarsi solo se sostenuto dalla musica.

RF – Alla fine qual è il messaggio?

DCC – Non c’è nessun messaggio. Solo illusioni da dissipare, come nella “Canzone Majakovskij, che è… il punto di approdo momentanievskij. Dissipare le illusioni, farlo, se si può, si deve farlo con arte. Il mondo è quello che è: nient’altro che quel che può essere. Evoco spesso il genius loci del redivivo Gorgia da Lentini: Sgalambro ha scritto che il mondo è pessimo, che non possiamo farci niente; niente, se non cantare. La frase, ad un livello superficiale, può apparire rinunciataria e rinunciante. Ma se vedi e se senti più in profondità…

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