
Sull’Atlante sono andato guidato dal mito. Non sono un alpinista né, in senso stretto, un uomo di montagna. Il mio approccio non è quello di chi cerca un’avventura “montagnarda”, con difficili passaggi e varianti tecniche con corde e ramponi, né quello di un boy scout, che del resto non sono mai stato. Se mai, qualcosa di diverso che non sta nemmeno in mezzo a queste due polarità ma si colloca necessariamente all’esterno e altrove, eventualmente definibile con il termine giapponese Shugendo o, con termine sanscrito, Prakritilaya e che, per restituire un significato accessibile, andrà identificato con quella condizione meditativa che si può ottenere camminando in luoghi di alta quota.
Sull’Atlante sono andato guidato dal mito, lo stesso mito dell’Etna. No, non certo quello di Polifemo o altre simili banalità troppo umane di ascendenza omerica. Piuttosto, l’origine del mondo dal kaos che è narrata nella Teogonia di Esiodo (115: ἦ τοι μὲν πρώτιστα Χάος γένετ᾽, αὐτὰρ ἔπειτα) e che prosegue con la lotta per la successione a Saturno, vinta da Giove ma insidiata dal complotto degli altri pretendenti al trono, i Cronidi Titani. La lotta che viene narrata è inconcepibile alla mente umana, se non attraverso la contemplazione di queste pietre frante e del ribollire di fuoco di cui le attuali eruzioni sono ricordo sbiadito eppure testimonianza vivente. Il sodalizio tra Prometeo, Atlante, Tifone, Epimeteo e il misterioso Menetio (Μενοίτιον) condusse alla lotta implacabile tra le due schiere:

secondo la Teogonia di Esiodo.
Tratto da http://www.perseus.tufts.edu
Tifone non è tra i discendenti di Giapeto (Iafet) che, come Giove (Zeus), appartiene alla progenie di Urano e Gaia. Anche Tifone è figlio di Gaia, che però l’ebbe con l’oscuro Tartaro. Questa potente origine non basterà ad evitare che Tifone soccomba nella lotta con Minerva, da cui fu scagliato nell’abisso e sepolto sotto l’isola di Sicilia. Anche Atlante dovette cedere alla potenza di Perseo, che s’avvalse nella lotta dello scudo della testa di Medusa, con cui pietrificò l’avversario e lo precipitò sotto la catena di monti che ancora porta il suo nome. E poi Prometeo, incatenato all’Elbrus, sul Caucaso.
Dal testo di Esiodo si potrebbe derivare che questa rivolta andò male per l’impulsività di Tifone, che ruppe gli indugi di Prometeo “dai pensieri contorti” (ἀλυκτοπέδῃσι Προμηθέα) e volle attaccare prematuramente secondo i desideri impulsivi di Menetio, il Titano più oscuro, definito “orgoglioso” (ὑπερκύδαντα Μενοίτιον), il più collegato con il “pensiero istintivo”, con il genio irredimibile della terra. Questo volitivo “io”, espressione del Manes istintuale, può esser declinato come Menceyes (nome sacerdotale dei Guancha di Tenerife), Manu, l’antico legislatore della divina Necessità, o Mani o ancora, dall’altra parte dell’Atlantico, Manito. Nella lotta dei Titani, è lui a subire la suprema condanna, nel fuoco e nel ghiaccio dell’Erebo (il fatto che ci sia un vulcano in Antartide chiamato Erebus e che somiglia tanto a quella natural burella di cui parla Dante è forse da annoverare tra le tante casualità che i miti sovente in modo inspiegabile esprimono).

Ospite in una casa berbera presso Ouirgane, nell’interno dei costoni di roccia dell’Atlante, mi sono sentito male. Ho avuto la febbre, misurata con il termometro di un amico di spedizione, un vecchio termometro con la barra al mercurio, di quelli che non fanno più. Ho ancora il rammarico di averglielo smarrito, ma tutta la notte sono stato dentro un delirio che mi ha tolto coscienza di me, se mai ne avessi avuta. Ho trovato il buon senso di ascoltare il suggerimento di uno dei carovanieri, che mi ha sconsigliato di dormire dentro la stanza dov’ero alloggiato, e di rimanere invece in terrazza con loro. Eravamo nei giorni di ottobre a mille e ottocento metri di altitudine, ma con le coperte di lana berbera non si avvertiva nessuna sensazione di freddo. Per la testa avevo un cappello della stessa lana, con motivi tradizionali. Devo essere stato in pieno delirio per tutta la notte, con la mente e il cuore che cercavano invano di registrare i loro movimenti. Dev’essere stato intorno alle quattro del mattino che la Luna si è inabissata dietro i monti. A quel punto della notte ho dovuto alzarmi, per vomitare anche l’anima. Subito dopo mi accorsi del segno di Atlante. Accanto a questo, sulla parete complementare, un altro segno.

Il segno di Tazerzit, divinità femminile paredro di Atlante, dea della protezione. Quando sorse il sole, ero guarito. Tutto si era risolto, un nuovo allineamento si era prodotto dentro di me. Potevo adesso dirigermi verso Imlil, per ascendere al Toukbal, la vetta più alta dell’Atlante, 4180 metri. Dietro il Toubkal, le vette gemelle dell’Ouanounkrim. Ecco, la nuova apertura di luce. Domandai cosa significasse “krim”. Mi dissero “compostezza, dignità”. Mi dissero inoltre di Abdel Krim el Kattabi, che nel secolo scorso fu il principale condottiero per ottenere l’indipendenza del Marocco dal colonialismo francese. Bisognerebbe leggere gli articoli di Toni Maraini per capire cos’è stato il colonialismo francese in Marocco: la completa effrazione di ogni cultura del luogo, la negazione che le popolazioni berbere avessero loro scritti e persino un alfabeto, l’affermazione nominalistica di portare lo sviluppo e la concreta azione programmatica di scolarizzare soltanto il 2% della popolazione. Il Marocco paga ancora gli effetti di questa politica vessatoria di cui, alla fine, i celebrati nomi occidentali della belle époque di Tangeri (Brion Gysin, Paul Bowles, William Burroughs), appaiono la costruzione di un assurdo falso ideologico ed estetico strumentalmente posto a servizio del più cinico sfruttamento capitalistico.
La notte al rifugio del Toubkal fu aggredita da un inatteso turbinare del vento e dallo scrosciare della pioggia. L’indomani, la cima era bianca di neve e di ghiaccio. Non sono un vero alpinista, l’ho già detto. Constatate le condizioni del terreno, decidetti di rinunciare, impegnando il tempo nella lettura non de Il pasto nudo di Burroughs, ma de Il pane nudo di Mohammed Choukri. Forse ho fatto anche un film da quattro minuti, un pezzo d’avanguardia che usa le tecniche di montaggio del cut-up per esprimere contenuti anticapitalistici. Chissà dov’è. Chissà. Non ho conquistato la cima del Toubkal, ma spero di aver conquistato un pezzetto, non importa quanto piccolo, del cuore dell’Atlante. Un cuore in pezzi, se è vero quel colore di un rosso infuocato di interminati tramonti su costoni di roccia che si sfaldano. Quando tutto sembra risolto, ecco una frana di massi potenti attraversare il nostro cammino. La montagna insegna a non aver paura e a mantenere costante rispetto. Quel rispetto che è dovuto a chi ci ha accompagnato e ad una cultura che va distinta da quella araba, e che ha molto da dire e da insegnare. La cultura dell’Atlante, la sapienza degli Amazigh.

Tornando giù dalla pista che da Asni conduce a Tahanaoute e da qui a Marrakech, nella notte il mistero rutilante dei tamburi e delle trombe degli incantatori di serpenti nella piazza dell’assemblea dei morti: è questo il significato di Jemnaa el-fna. Qui non è più la gente della montagna, sincera e leale come impone la legge delle pietre, ma la gente del mercato. I tamburi durano per tutta la notte, è un richiamo, un richiamo che può portare via l’anima attraverso il voodoo. Non siamo nella cultura berbera, né in quella islamica. La Moschea di Koutoubia è a qualche centinaio di metri, l’Atlante a chilometri. Ma non è una questione di distanze. Qui è il punto dove confluiscono i musici del joujouka, che è il nome africano da cui, per distorsione, deriva il voodoo delle isole dell’America centrale. Qui non si fanno concerti, si creano cerchi nella piazza. Ogni cerchio è un punto di musica, separato, complementare e antagonista agli altri. Ogni cerchio ha la sua mambo, la danzatrice che evoca le profondità della terra. L’avventore può scegliere da quale cerchio farsi inghiottire, quanto lasciarsi prendere e come e quando scappare, se ancora lo può. Se ne avverte la potenza, la condizione in cui ogni anima sarà divorata, e può essere divorata subito, questa notte, adesso.

Lascia stare la città e i suoi inganni di mercanti e di mercato. Ritorna con la mente all’Atlante, a quei villaggi abitati da gente semplice e leale. Dimentica anche quello, lascia perdere ciò che è umano, dissolvi l’illusione degli dèi. Atlas.
La montagna insegna la prudenza ad ogni passo, la costanza, la fiducia nella scelta giusta. Lungo è il cammino, difficile l’arte, breve la vita.
