Siracusa la magnifica. Nel glorioso passato ellenico, città che rivaleggiava con Atene per ricchezza e per cultura e, per quanto attiene il teatro, luogo in cui nessuno che non avesse rappresentato lì le sue tragedie poteva dirsi davvero famoso, nemmeno tra gli autori più affermati in Grecia.
Siracusa, che riprende dopo millenni le rappresentazioni dei drammi di Eschilo, di Sofocle, di Euripide, per la visionaria intuizione di un grande della cultura italiana, Ettore Romagnoli, e di un poeta della nobiltà siciliana, il conte Tommaso Gargallo, con l’obiettivo utopistico di “educare” il pubblico, facendosi promotori di una cultura modernista, progressista e aperta a tutti, veramente democratica.
Siracusa, dunque, con il suo magnifico teatro, con una capienza di 15.000 posti, un’area scenica immensa, prodigiosa memoria di millenni, sensazione atavica restituita dal coro sibilante di ogni pietra: un luogo che fa venire i brividi.
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Abbiamo visto, nell’edizione presente, l’Aiace messo in scena da Luca Micheletti. Il dramma è possente, dalla critica più recente definito per antonomasia come ponte di passaggio da un mondo eroico di guerrieri “con una sola parola” ad un mondo nuovo, fatto da opportunisti e inventori di trucchi politici. Aiace è il mondo del passato, che cede luogo a Ulisse, il furbo che va avanti con centomila parole di destrezza.
La scenografia (Nicolas Bovey) è imponente ma minimalista o, almeno, così appare all’inizio della narrazione: teli insanguinati, ad evocare la strage degli armenti fatta da Aiace, colto da follia dettata dalla sua incapacità di sopportare che il suo popolo – dopo la guerra di Troia in cui da eroe si era distinto battendosi con il più potente dei troiani, Ettore – gli abbia preferito quel distillatore di inganni che è Ulisse.
Battute celeberrime, costitutive della storia del teatro, vengono pronunciate: «Anche l’impossibile può accadere se un dio lo vuole»; «Tutti noi viventi non siamo che fantasmi e ombre vane», puntellate da un clarino, erede moderno e nostalgico dell’aulòs, con una consapevolezza musicale che il regista – che è anche interprete del ruolo del protagonista sulla scena – deriva dal suo eclettico curriculum: membro di una famiglia di artisti da quattro generazioni, con incursioni nella linguistica e nella sperimentazione teatrale, come anche nella convenzione del teatro lirico.
Nell’ombra, c’è una piccola orchestra di violoncelli, percussioni. E un’arpa. Apparirà sulla scena anche un trombone, per fissare il segno di un’apocalisse.
Non deve sfuggire che Ulisse (qui Odissèo, per scelta ortografica e fonetica grecizzante), è subito sospettato di esser stato lui a devastare le mandrie. Poi, però, l’incedere delle parole fa scaturire, vera o presunta, un’altra verità, l’ombra che scende su Aiace: «Una torbida tempesta di follia»; «un dio lo perseguita».
Aiace non accoglie le emozioni. Non cede. Quando queste pulsioni, distillate, tradotte in saggezza, vengono espresse dalla sua donna, Tecmessa, lui le rifiuta, sprezzante: «il silenzio fa onore alle donne». Inoltre, di Tecmessa (interpretata con palpitante tensione da Diana Manea) non può passare inosservata la sua condizione d’esser parte del bottino di guerra, “cattiva” concubina presa dalla città sconfitta. Amata fino a qualche giorno prima, adesso Tecmessa deve temere per la sua sopravvivenza e persino per quella del piccolo fanciullo che ha avuto da Aiace.
La strage degli armenti, già dichiarata dai teli insanguinati, sottolineata dalle pelli di pecora sulla scena, si fa più cruenta quando i teli scoprono delle bare, traslazione simbolica di una morte che collega l’uomo all’animale, ricordandoci che anche l’uomo è un animale e che il dio, nella sensibilità intuitiva dei greci e, in residuo, nella nostra, è il complemento di termine di questi due livelli. Se un dio lo vuole, il bambino può essere ucciso dal padre: il mito di Kronos sorveglia le cime dei monti, ed è su un monte che Aiace si è ritirato.

La scena, che sembrava semplice, tolti i teli, si rivela come una enorme e costosa carcassa di ossa, scheletro di un ipotetico enorme uomo che pervade il profilo del monte e del mondo intero: Aiace sta per darsi la morte. Lo ha fatto, e per sempre. Finisce un mondo antico, di cui lo scheletro iper-realista rimanda all’estinzione di un’antica e gigantesca specie.
A questo punto, non resta che l’umano potere. Appariranno Menelao e Agamennone, in chiave baritonale, ad affermarne le ragioni, ridendo e irridendo. Del resto, Aiace ha osato lui stesso irridere gli dei «…è facile ottenere successo con l’aiuto degli dèi, ma io l’ho ottenuto comunque, senza il loro aiuto» ed ora gli dei lo irridono per mezzo degli umani, vìndici del sangue degli animali straziati senza un perché, assenza di ragione che è essa stessa retrocessione al regno animale.
Teucro, il fratello di Aiace, (Tommaso Cardarelli, interprete del dubbio tra il sangue e la ragione, l’onore e il vantaggio), viene dileggiato da questo potere che in un attimo – come sempre accade quando il potere umano erompe e sporca – destituisce ogni gloria dell’uomo che un attimo prima tutti consideravano un eroe. Deridono persino lo stesso Teucro, perché le sue qualità di arciere deriverebbero dalla sua inadeguatezza a combattere il nemico corpo a corpo. Menelao ha decretato che le spoglie di Aiace rimangano insepolte, ed Agamennone è d’accordo.
Qualche concessione al postmoderno può esser giustificata e compresa se pensiamo che l’opera vuole raggiungere la comprensibilità di tutto il pubblico: i costumi alla “star wars” e le spade al neon fanno pensare a recenti semplificazioni cinematografiche alla Baz Luhrmann et similia. L’irrappresentabilità del sacro come tema del Novecento può far riflettere i più dotti, mentre chi ha bisogno dell’intrattenimento e dello spettacolo ha qui il suo pane et circenses.
Tornando ai contenuti, il tema della mancata sepoltura è ponte per un altro dramma di Sofocle, che si colloca in altro momento e in altro spazio: la Tebe di Edipo, dove il decreto di non sepoltura riguarda il corpo di Polinice e la tragedia di Antigone (peraltro in giorni recenti andata in scena a Catania – Amenanos Festival): quell’Antigone che, avendo sepolto il fratello, è condannata ella stessa ad esser sepolta viva.
Alla fine, il trionfo è di Odissèo (interpretato da Daniele Salvo, esperto attore che di quest’opera di Sofocle è già stato anche regista per un’altra memorabile messa in scena, sempre a Siracusa, nel 2010). La sua astuzia gli fa comprendere che non è irridendo il nemico che potrà ottenere maggior favore presso i greci ma, al contrario, cantandone le lodi ed essendo magnanimo rispetto all’antagonista che ora, essendosi dato la morte, nulla può contro di lui, massimamente contraddirlo.
Malgrado tutto, la politica ha la sua ragione: che non è trascendente, ma umana. Forse, nietzscheanamente troppo umana ma, almeno: ragione. Perché, se anche le motivazioni di Odissèo non sono nobili, tuttavia la scelta è quella giusta. A differenza dell’orrore di Tebe, in seguito all’apologo di Odissèo, può qui venir data sepoltura ad Aiace. Il cuore dell’uomo soffre. La giustizia viene raggiunta per un equivoco. Ma la ragione superiore dell’inconoscibile Proposito talora segue percorsi non comprensibili al cuore umano, né alla mente.

